Dalla via Salaria al fiume Aniene, nel 1956 e dopo anni di battaglie giudiziarie, Villa Ada a Roma rischiava di sparire, cancellata pezzo per pezzo dalla lottizzazione e dalla speculazione edilizia. La riserva di caccia dei Savoia, che oggi ospita l’ambasciata d’Egitto, fu uno degli ultimi terreni di scontro fra l’ex famiglia reale e lo Stato italiano. Gli eredi di Vittorio Emanuele III, infatti, erano intenzionati a dividere e vendere l’intera proprietà, mentre il ministero delle Finanze, guidato da Giulio Andreotti, aveva un piano per acquisire l’intero terreno. L’articolo di Gianni Corbi, apparso sulla prima pagina del 1956, spiegava in che modo lo Stato italiano intendesse entrare in possesso di almeno un terzo di Villa Ada, trasformandolo in un parco pubblico e rinunciando però ai diritti su altre proprietà della famiglia Savoia. Solo così, affermava Corbi, la villa sarebbe sopravvissuta alla generale speculazione edilizia romana, di cui L’Espresso si stava già occupando separatamente con la celebre inchiesta “Capitale corrotta = nazione infetta”. La ricostruzione di Corbi sugli interessi economici e politici attorno a Villa Ada individuava appunto nel progetto ministeriale l’unica soluzione per salvare la riserva di cento ettari dalla distruzione toccata in precedenza a molte altre aree verdi della città.