Lui è un reduce dalla Cecenia. Lei è una prostituta. Nasce un amore senza futuro. In un Paese senza anima
Tornato da militare, la mia vita era diventata un inferno. Provavo odio per i russi. Dopo due anni in Cecenia di vita in mezzo al fango, tra caldo e freddo, cibo in scatola, battaglie, morti, feriti, e dove anche i sentimenti più profondi cambiavano il loro senso così velocemente che le persone non si accorgevano neanche di diventare cattive o buone, forti o deboli, come in una giostra; dopo due anni, dunque, un bel giorno mi sono trovato nel mio appartamento, e la vita era diventata un inferno. Il senso di sporco che mi portavo addosso durante la guerra era diventato una forma di sicurezza. La pelle che si appiccica ai vestiti, le mani unte dai residui di polvere da sparo e dall'olio, il nero sotto le unghie, le labbra secche e crepate dal vento, con qualche grumo di sangue secco sopra; le ginocchia e i gomiti sempre spaccati, graffiati, con ferite che non guariscono mai perché non c'è abbastanza tempo; i piedi che diventano duri, come un unico grande callo, sporchi come il cingolato di un carro armato. Sentire il mio corpo sporco mi dava la conferma che ero ancora vivo. In guerra si diceva: finché soffri, vuol dire che sei vivo, quando cominci a sentire di star bene, allora vuol dire che sei morto.
Tornato a casa mi mancavano dunque tutte quelle cose e quei sentimenti che in guerra davano forma e senso alla mia esistenza. Mi ricordavo come, da militare, in mezzo al freddo, sognavo una vasca da bagno con l'acqua calda, con il sapone che sapesse di qualcosa di tenero, che facesse sentire un leggero pizzico sulla pelle. Adesso che ero davanti a quella vasca mi sentivo in trappola. Tutto mi sembrava troppo pulito, anche l'acqua che usciva dal rubinetto era troppo pulita e calda. A volte la guardavo, stregato, scorrere per ore, sentivo con la faccia il vapore caldo che si alzava, e restavo lì, bloccato, come se non potessi credere che tutto questo fosse vero. Di notte non riuscivo a dormire. Provavo a ubriacarmi ma non mi aiutava.
Poi ho scoperto, per caso, che mi dava fastidio il silenzio. Non riuscivo a dormire nel silenzio, così alzavo il volume del televisore e la notte passava. E ancora: mi spostavo per casa evitando le finestre: mi facevano sentire indifeso. Ho finito per coprirle con un panno nero, per non far passare i raggi del sole. Mi spostavo per l'appartamento con il kalashnikov. Dalla Cecenia avevo portato a casa parecchie armi e mi sono accorto, il primo giorno della mia vita da borghese, che se non tenevo tra le mani una pistola o un fucile mi sentivo come se mi mancasse una parte del corpo.
Con il passare del tempo ho cominciato a migliorare, mi sono abituato a lavarmi e a tenere i miei vestiti puliti, poi ho tolto i tendoni. Ho cominciato a uscire, andavo a cercare lavoro. Dopo la prima settimana di ricerche ho capito che non mi prendeva nessuno, perché ero un reduce di guerra. Così ho cominciato a girare per la città senza scopo. Presto ho conosciuto altri veterani: qualcuno mutilato, altri sani, ma tutti portavano, dentro, una grande rabbia. Tra veterani ci si ubriacava, e la cosa finiva lì. Una sera, però dopo il funerale di tre ragazzi che conoscevo, un mio amico - ubriaco come me - mi ha sussurato che se ero d'accordo, dopo la cena che in Russia si fa al termine del funerale, mi avrebe portato in un luogo dove ci si poteva rilassare. La cena era un delirio: sembrava uno spettacolo di marionette gestito da un folle crudele, una messa in scena di un esercito di demoni.
Poi siamo usciti: io e il mio amico.
Siamo saliti in macchina e abbiamo attraversato la città grigia e inospitale, che sembrava vuota anche quando era piena di gente. Siamo arrivati in una casa dove le prostitute ricevevano i clienti. In quei giorni non volevo avere rapporti con altri umani, tanto meno rapporti sessuali. Per un momento ho pensato di andarmene, però non avevo voglia di attraversare di nuovo tutta la città, così sono entrato dentro l'edificio. Era un vecchio palazzo tenuto bene, ordinato: sembrava uno di quegli alberghi a gestione familiare. Siamo saliti al primo piano. Nel corridoio c'era una luce gialla fioca, il mio amico mi ha indicato una porta: "La ragazza ti piacerà, è una tipa strana, come te...". Cosa intendesse non gliel'ho chiesto.
Ho bussato e ho sentito dei passi, la porta si è aperta, ma la ragazza si è subito nascosta nel bagno. Ho chiesto il permesso di entrare. "Sto finendo di sviluppare le foto, ti raggiungo fra un secondo..." mi ha risposto. La sua voce era bellissima, aveva un ritmo con cui in Russia si cantano le poesie: perché in Russia le poesie si cantano, non si recitano. Mi sono avvicinato, e ho cominciato a parlare con lei, attraverso la porta chiusa del bagno.
Le chiedevo cose di nessun conto, quelle leggere sciocchezze che si tirano fuori quando non si ha voglia di parlare. Lei rispondeva con una dolcezza che non avevo mai sentito prima in tutta la mia vita. Mi sono convinto: ero testimone di una magia. Poi, ho aperto la porta e ho guardato la ragazza: era di una bellezza ferma e calma. Era seduta sul bordo della vasca, illuminata da una lampada rossa che faceva ombre in quello spazio angusto, così che lei sembrava un dipinto meraviglioso. Sono rimasto fermo sulla soglia, a fissarla con lo sguardo. Lei mi ha detto: "Entra e chiudi la porta, altrimenti le foto vengono male". Sono entrato e mi sono messo in un angolo, senza parlare. Lei faceva il suo lavoro, come se io non ci fossi, e io la guardavo ipnotizzato. Avevo paura di respirare. Nel buio illuminato dalla luce rossa, la osservavo. Sì, era una magia. Quella sera volevo solo starle vicino, osservarla mentre parlava, mentre raccontava la sua vita.
Mi ricordava i racconti di mio nonno sulla donna-lontra. In Siberia, in un fiume in mezzo al bosco vivevano delle lontre, che certe notti si trasformavano in donne, perché erano stanche di portare la pelliccia. E se le guardavi mentre si toglievano la pelliccia potevi innamorartene. In questo caso non dovevi fare però niente, non dovevi tentare nessuna approccio, altrimenti loro sarebbero morte dalla vergogna. Potevi solo guardarle, finché loro non si fossero rimesse la pelliccia. Se avessi rubato la pelliccia a una donna-lontra, lei sarebbe morta. E Amba, lo spirito della taiga, sarebbe arrivato sotto la forma di una tigre per punirti.
Quando ero piccolo, non riuscivo a immaginare lo stato d'animo di una persona innamorata della donna-lontra. Come ci si sente, sapendo fin dall'inizio che il tuo amore non ha speranze, e non perché non sei accettato, ma per la forza della natura, perché le cose sono messe in un certo modo e nessuno può cambiarle. Così mi sentivo io con questa ragazza: attratto da lei, ma sapendo di non poterla amare.
Si chiamava Anna, veniva da un piccolo paese negli Urali. Era cresciuta tra i boschi. Abbiamo parlato tutta la notte, io le ho raccontato della Siberia e di mio nonno che abitava pure lui nel bosco, e degli animali che avevo visto lì, della gente che avevo incontrato e delle emozioni che avevo vissuto; lei mi ha raccontato della sua famiglia, del fiume che passava vicino alla loro casa, dei colombi che allevava insieme a suo padre, dei fiori che crescevano nei campi sotto le montagne. All'alba lei mi si è avvicinata e mi ha toccato la faccia, io l'ho abbracciata e ho sentito il suo profumo: non sembrava un profumo umano, era qualcosa che può portare solo il vento che ti passa vicino e ti sfiora per un fugace momento.
Di mattina abbiamo fatto all'amore. Mi sono sentito purificato da tutto il mio passato, dai miei ricordi di guerra, dalla stanchezza. Non volevo andare via, siamo stati nel letto a guardarci, abbracciati stretti, fino a sera.
Prima di uscire ho lasciato sul suo comò cinquanta dollari, tutto quello che avevo, lei ha preso i soldi e me li ha rimessi in mano. Ho cercato di insistere, ho detto che non la stavo pagando, che quello era solo un piccolo aiuto o qualcosa del genere, ma lei ha sorriso. E ha detto: "Piuttosto un giorno portami da qualche parte".
Tornavo ogni sera da lei come si va a casa, uscivamo, parlavamo, la chiamavo per sapere come stava, mi accorgevo che senza volerlo mi preoccupavo di lei. Quando mi capitava di passare la notte da qualche parte, per affari, lei mi chiamava dicendo che aveva fatto un brutto sogno. Allora io andavo da lei il prima possibile, e lei, quando mi vedeva, si metteva a piangere e a sorridere, e io capivo che per farla sentire felice bastava farsi vedere, rassicurarla. Tra noi non c'era solo passione: c'era un senso di fiducia, un sentimento profondo, quasi naturale, un senso di fiducia innato, non certo acquisito. Lei si addormentava mettendo la testa sul mio petto, e mi stringeva la mano mentre dormiva. Io le accarezzavo i capelli, lei mi massaggiava la schiena e la testa. A volte sembravamo una coppia, eravamo una coppia. Ma non pensavamo al futuro, come se non potesse esistere un futuro per noi due. Quando avevo soldi la portavo per una o due settimane in un paesino dove il padre di un mio amico aveva un pezzo di bosco. Stavamo in una baita senza vedere nessuno. Andavamo nel bosco, facevamo passeggiate fino al fiume, ci tuffavamo nell'acqua; nuotavamo nudi, galleggiando per ore, e ci sentivamo felici.
Un giorno sono finito in un guaio, avevo delle ferite e un trauma cranico. Non mi ricordavo di come mi avessero portato in ospedale e di che cosa avessero fatto i medici con il mio corpo, ma quando ho aperto gli occhi la prima cosa che ho visto è stata la faccia di Anna. In quel momento mi è passata la stanchezza e il dolore, mi sentivo bene, ero felice. Lei mi è stata vicina per una settimana, senza allontanarsi un attimo. Mi leggeva a voce alta 'Il cielo non ha preferenze' di Remarque, e mentre sentivo la sua voce, provavo gioia.
Il nostro rapporto è durato un anno, finché un giorno sono stato arrestato per detenzione di armi da fuoco. Lei mi ha mandato una lettera in galera per chiedermi cosa dovesse farne di miei soldi e delle mie cose (non voleva darle ai poliziotti come si usa in Russia). Io stavo male: in carcere mi picchiavano ogni giorno, cercando di farmi confessare delitti che non avevo commesso. Le ho risposto che se lei ci teneva al nostro amore e a tutto quel che di bello c'era stato tra noi, doveva lasciare subito il Paese. Doveva usare i miei soldi, le ho fatto sapere, per procurarsi dei documenti e andarsene in Finlandia, rifarsi una vita lì. Le auguravo una buona vita. Lei mi ha mandato una lettera brevissima e sofferta, dove tra l'altro c'era scritto "Rimpiango la vita che non abbiamo mai avuto".
Anna se n'è andata in Finlandia, io sono rimasto in carcere. Dopo qualche mese sono uscito, e me ne sono subito andato via. Prima pensavo tanto ad Anna, poi sempre di meno, poi soltanto qualche volta ricordavo qualcosa di lei: mi perdevo nelle cose quotidiane, nelle nuove relazioni, e lei era sempre più lontana e mi sembrava di non ricordare più quei particolari che prima mi facevano sentire felice insieme a lei.
Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera dalla Finlandia, dove ho trovato la foto scattata da Anna: io e lei, nella sua stanza, così come eravamo una volta. Mi ha scritto che stava bene, si è sposata con una brava persona, vive in una piccola cittadina sul mare. Ha avuto un figlio che ha chiamato col mio nome. Mi ha detto che vorrebbe venire a trovarmi. Credo che eviterò quest'incontro, altrimenti rischieremo di provare ad avere una vita che non potremmo mai avere.