Se gli eschimesi hanno molti modi per dire "neve", i friulani non hanno nemmeno una parola per dire "felice". Chi la traduce con "beât", chi con "content", più che altro ad indicare "soddisfazione", e pure un po' precaria. Insomma, non esattamente una felicità da tre metri sopra il cielo.
È questa bizzarria linguistica che ha ispirato il progetto per la tv che si chiama, appunto, 'Felici ma Furlans' (www.felicimafurlans.it). Una serie in sei puntate per raccontare attraverso la satira televisiva cosa significa essere friulani negli anni duemila. Una specie di Boris in salsa Nord Est, "che vuole raccontare l'homo furlanus dei giorni nostri senza sfociare nel grottesco", spiega Tommaso Pecile, autore, tra le altre, della tragicommedia pulp 'Prime che a rivin cuatri' (miglior regia e allestimento al II festival Atf del Teatro friulano) e ideatore del progetto assieme ad Alessandro Di Pauli, un dottorato in Scienze teatrali a Barcellona.
Un viaggio tra figure di pasoliniana memoria, "il film gioca costruendo stereotipi - racconta l'autore - quelli tipici del teatro comico della tradizione, per poi smontarli, accompagnando lo spettatore nel percorso che i personaggi compiono puntata dopo puntata". Ci sono ad esempio Libero, il tipico friulano tutto d'un pezzo, "salt, onest e lavoradôr" e un po' invalido sentimentalmente, "paron Serio", deus ex machina dell'azienda, teorico della superiorità dell'azione sul pensiero, e suo figlio "Stîv", il bamboccione tutto "machinis e feminis" (anche se qui tutto il mondo italico è paese). Ma il vero protagonista è Gianni, trentenne rientrato in Friuli dopo dieci anni di assenza, che si arrabatta tra le piccole sventure quotidiane dell'"inciviltà" di provincia e che ancora si domanda: "Tornare a casa sarà stata una buona idea?".
Il prodotto è di quelli 100% made in Friûl: friulani gli ideatori, così come la regia, la postproduzione, la fotografia e il cast. Professionisti under35, perlopiù "espatriati", volontari per la "Patrie" (come i friulani chiamano la loro regione). Ora la sfida, dicono gli ideatori, è quella di trovare le risorse, pubbliche e private, per la produzione della serie. E il ruolo della lingua friulana? Impossibile immaginare lo sceneggiato senza genuinità espressive del tipo "Tiriti in bande, menebighes!" (spostati, fannullone!) o "friciute" (fighetta). Qui, insomma, la "marilenghe" (la lingua friulana) è viva e vegeta e parte integrante del progetto, anche se rivisitata. Il friulano parlato dai personaggi è quello d'oggi: un po' italiano, un po' friulano, e poi ancora un po' tutt'e due assieme.
Felici ma Furlans vuole mettere in scena la friulanità che si racconta a se stessa ma anche al "forest", con tanto di sottotitoli in inglese oltre che in italiano. Difficile spiegare che in friulano "ti amo" si dice "ti vuei ben" (ti voglio bene) e abbracciami si dice "strenzimi" (stringimi). Ma, alla fine, i friulani davvero non lo sanno cos'è la felicità? In questa terra dove c'è poco simpatia per "lis cjacaris" (le chiacchiere), per vedere se si può essere "felici e furlans" al tempo stesso, consigliato un bel giro per sagre: provare per ricredersi.