«Una missione che ho iniziato 60 anni fa. Per oppormi alla devastazione. E per amore delle donne. E' stato un viaggio lungo, durante il quale mi sono scontrato con l'establishment. Ma oggi posso dire: ci siamo quasi». Parla il grande oncologo, tra ricordi e speranze

Ci deve essere un'alternativa alla distruzione. Me ne convinsi durante la guerra, nei mesi di degenza all'Ospedale di Montecatini, dentro e fuori dalla sala operatoria, con 2000 ferite da schegge in corpo. Ero saltato su una mina, in un campo vicino a Pistoia, e se credessi ai miracoli direi che miracolosamente riuscii a sopravvivere. Perché mi salvai rimane un mistero, ma il rischio della perdita della vita, l'esperienza della sofferenza, furono invece qualcosa di molto reale, che mi segnò - oggi lo posso dire - positivamente, perché fece di me un ribelle. Non accettai mai più la violenza. Per questo quando divenni oncologo ed entrai nel '51, a ventisei anni, all'Istituto Tumori di Milano decisi di ribellarmi alla devastazione causata dalle cure oncologiche, soprattutto sul corpo femminile.

Il mio mondo è stato plasmato da figure femminili, a partire da mia madre, e la sofferenza delle pazienti mi colpiva profondamente, ispirandomi un desiderio fortissimo di protezione. Per il tumore del seno la mastectomia era il dogma: si asportava totalmente la mammella, i linfonodi dell'ascella, i muscoli pettorali, e poi si effettuavano lunghe sedute di radioterapia sul torace, sul collo, sull'ascella. La ricostruzione del seno non esisteva, e le donne erano costrette a vivere per sempre con il marchio di un male spaventoso. Ci deve essere un'alternativa alla distruzione, pensai appunto, un modo per correggere e per prevenire questo attacco crudele all'identità della donna.

Così iniziai a pensare alla possibilità di un intervento conservativo. Qui mi vennero in aiuto il microscopio e i miei studi in anatomia e istologia patologica. Avevo capito che, nella fase iniziale, le cellule tumorali si riproducono in maniera poco aggressiva. Quindi ipotizzai che il tumore, se asportato quando le sue dimensioni sono piccole, è meno minaccioso e verosimilmente localizzato.

Nacque così l'idea di asportare solo la parte della mammella dove il nodulo era posizionato, senza diminuire l'efficacia della chirurgia. Oggi sappiamo che in effetti esiste una progressiva selezione naturale tra le cellule tumorali, per cui si affermano via via quelle più aggressive. Ma a quel tempo la mia era un'ipotesi e fu osteggiata dal mondo scientifico. Anzi direi che fu uno scandalo, e io fui accusato di essere un folle visionario, che osava infrangere le intoccabili verità dell'oncologia di allora, basate sul principio del "massimo tollerabile": bisogna distruggere il tumore con ogni mezzo spingendosi al massimo che il paziente può sopportare.

Tuttavia ebbi la forza di iniziare uno studio approfondito e per otto anni 700 donne parteciparono allo studio clinico che confrontava la mastectomia con la quadrantectomia. I risultati furono pubblicati nel 1981 sul "New England Journal of Medicine". I dati erano inequivocabili: non c'è alcuna differenza di probabilità di guarigione tra le due tecniche. Il primato della mastectomia, che aveva l'obiettivo di salvare la vita era stato superato dalla nuova quadrantectomia che non solo salvava la vita, ma anche la sua qualità. Fu una rivoluzione in tutto il mondo. Il "New York Times" uscì con un articolo in prima pagina su otto colonne, ma anche il "Los Angeles Times", e il "Washington Post" fecero da cassa di risonanza e il passaparola diffuse nel mondo femminile la convinzione che nessuna donna doveva più accettare la mastectomia come principio.

Fu un capovolgimento fondamentale per la storia dei tumori perché stabilì almeno tre capisaldi su cui si fonda la moderna oncologia: l'importanza della diagnosi precoce, il principio della cura minima efficace, l'attenzione alla dimensione psicologica della malattia. Circa il primo, è presto detto: senza diagnosi precoce non c'è cura conservativa, e molte volte non c'è cura efficace. La possibilità della conservazione ha avuto infatti un enorme impatto sulle percentuali di guarigione. Prima le donne tendevano a farsi vedere dal medico il più tardi possibile, perché sapevano che la cura era l'amputazione. Con l'incentivo della conservazione, invece, cominciarono a fare il contrario, a controllare il seno con le proprie mani, ad andare dal senologo al primo dubbio, a fare la mammografia ed ecografia sistematicamente e poiché i tumori piccoli sono quelli che guariscono di più, già a partire dagli anni Novanta si vide il risultato di questa nuova mentalità anche sul calo di mortalità. Oggi le percentuali si sono completamente invertite: se 40 anni fa guariva solo il 40 per cento delle donne malate, ora guarisce l'85.

Il secondo caposaldo è quello che ha messo fine agli eccessi di cura: si è diffusa in tutte le discipline oncologiche (chirurgia, radioterapia, oncologia medica) l'idea che si può e si deve cercare per ogni paziente la cura che garantisca il massimo dell'efficacia possibile, con il minimo di invasività ed effetti collaterali per il malato. In questo senso la chirurgia conservativa, aiutata fortemente dalla tecnologia e dalla genetica, ha messo fine alle mutilazioni, ma ha anche aperto la strada alla radioterapia mirata, alle terapie localizzate e alle cure mediche personalizzate che tengono conto anche del progetto di vita del malato. A tutto questo è collegato il terzo caposaldo: aver pensato di salvare il seno, ha incoraggiato la nascita di una sensibilità "extra medica", un'attenzione all'immagine corporea come parte integrante dell'immagine di se stessi e, di conseguenza, una valorizzazione del vissuto della malattia. Fu introdotto così nel rapporto medico-paziente un elemento di umanità e di empatia che cominciò a sviluppare quella partecipazione del paziente che oggi la moderna oncologia - e tutta la medicina - trova normale.

Oggi sappiamo che non basta togliere la malattia dal corpo, bisogna toglierla anche dalla mente. Su questa filosofia sono nate le innovazioni degli anni più recenti: la biopsia del linfonodo sentinella che consente e di evitare la dissezione ascellare nei casi in cui i linfonodi siano sani; la radioterapia durante l'intervento chirurgico, che elimina o riduce a un'unica seduta i cicli post-operatori; la chirurgia radioguidata che arriva ad intervenire sulle micro calcificazioni. Le donne sono con noi, come e ancor più di trent'anni fa: oggi più di un terzo delle pazienti, arriva alla diagnosi con lesioni così piccole che, teoricamente, potrebbero guarire nella quasi totalità dei casi. Certo, moltissimo resta ancora da fare. Innanzitutto questo "terzo" deve diventare un 100 per cento perché sono ancora troppe le donne, anche in Italia, che per vari motivi non accedono alla prevenzione.

Conoscendo i gruppi a maggior rischio di malattia, interverremo sempre prima nel processo di formazione del tumore con l'alimentazione (oggi sappiamo che ci sono molecole in natura che ci proteggono dall'insorgenza del tumore), con la farmacoprevenzione (con principi attivi che impediscono lo sviluppo della cellula cancerosa) e con una "sorveglianza speciale" dal punto di vista diagnostico. La nuova frontiera è la diagnosi molecolare. Con un semplice esame del sangue potremo presto avere informazioni fondamentali per agire subito, ancora prima del cancro. Diventa sempre più credibile l'obiettivo di rendere il tumore del seno una malattia a mortalità zero.