Due è meglio di una, anzi, tre è meglio di due. Stiamo parlando di lingue. Conoscerle fa bene alla salute, rafforza le nostre capacità cognitive, potrebbe anche rallentare la progressione di malattie degenerative come l'Alzheimer. Diversi studi accendono il dibattito tra gli esperti che già sanno quanto mantenere il cervello in allenamento aiuti a conservare le capacità cognitive, ma che oggi hanno in mano qualcosa di più. Prima di tutto perché c'è qualcosa di molto concreto (parlare diversi idiomi) capace di prevenire la degenerazione cerebrale, e poi perché queste scoperte aiutano a capire proprio cosa accade tra i neuroni di una persona che parla diverse lingue e perché questo è benefico.
Il punto di partenza è un lavoro realizzato nel 2008 da Gitit Kavè, dello Herczeg Institute on Aging dell'Università di Tel Aviv, pubblicato su "Psycology and Aging", che ha osservato come la conoscenza di due o più lingue contribuisce a prevenire la perdita di capacità cognitive negli anziani con più di 75 anni. Già, ma perché? E a che condizioni? Oggi, gli scienziati hanno le idee più chiare. E la buona notizia è che a rafforzare le capacità cognitive e rallentare le malattie degenerative non è solo il bilinguismo vero e proprio, di chi è cresciuto all'estero, o in famiglie bilingui: può far bene anche il corso di inglese seguito da adulti o magari dopo la pensione.
L'ultima conferma in ordine di tempo arriva da uno studio su oltre 200 settantenni realizzato dalla ricercatrice lussemburghese Magali Perquin, e presentato al congresso dell'American Academy of Neurology, secondo il quale padroneggiare almeno tre lingue avrebbe un effetto protettivo sulla memoria. Mentre ricerche realizzate presso la York University di Toronto indicano che il fatto di parlare più lingue rallenta in modo significativo il deterioramento cognitivo provocato dall'Alzheimer. Come sottolinea la psicologa canadese Ellen Bialystok, responsabile della ricerca: "Sembra che parlare più di una lingua aiuti a tenere sotto controllo i danni provocati dalla malattia, permettendo a questi soggetti di conservare più a lungo le funzioni cerebrali".
La prospettiva è allettante e molti sono gli studi in corso. Osserva Andrea Moro, ordinario di linguistica generale presso l'Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia: "Sono studi che hanno basi solide. Certo, ci sono lingue come il cinese in cui le variazioni sono date da differenza di toni, ed è difficile comprenderne a fondo l'impatto sullo sviluppo cognitivo. Ma sappiamo che il bilinguismo offre dei vantaggi". Non c'è dubbio che molti di questi vantaggi siano di origine comportamentale: è facile capire, ad esempio, che chi conosce più lingue abbia una possibilità di comunicazione più ricca e articolata. Ed è forse per questo che le persone bilingui, secondo quanto emerge da studi recenti, sono più socievoli e disposte al colloquio, e non solo con coloro di cui comprendono il linguaggio. Ma c'è qualcosa di più: secondo ricerche condotte da Teresa Bajo in Spagna e da altri ricercatori all'università della Columbia Britannica, bambini di appena quattro mesi che siano stati esposti a più d'una lingua prima della nascita reagiscono con meno ansia a idiomi che non conoscono, e riescono a decifrare correttamente le espressioni facciali e le emozioni della persona che parla con loro. Insomma, sarà anche il comportamento, ma è certo che è la struttura del cervello stesso a essere coinvolta nell'effetto protettivo delle lingue sul suo sviluppo successivo.
Allora, è necessario chiedersi: cosa ha di diverso la lingua da altri tipi di ginnastica mentale? E come agisce sul nostro cervello? "Dobbiamo considerare che noi tendiamo a pensare alle lingue come a un tutto unico, senza renderci conto che si tratta di fenomeni complessi. Se prendiamo in esame, come si fa per questi studi, la lingua parlata, vediamo che ci sono un vocabolario, una grammatica, una sintassi", spiega Moro. Lo studio delle lingue è stato rivoluzionato nella seconda metà del '900 da Noam Chomsky, il quale analizzando le strutture matematiche alla base dei diversi idiomi si è reso conto che le lingue hanno una sorta di Dna comune, contenuto nel nostro cervello e che consente le infinite variazioni che conosciamo. "In questo senso, possiamo dire che imparare una lingua significa far interagire le informazioni che si apprendono con l'apparato con cui siamo nati, rendendo stabili alcuni dei percorsi possibili e dimenticandone altri", spiega Moro.
E imparare più lingue? "Quello di bilinguismo è un concetto complesso: si usa dire che una persona è bilingue quando non è riconoscibile come straniera", spiega l'esperto. Ma anche quando una lingua viene imparata spontaneamente, come avviene per i bambini piccoli, esiste sempre a livello cerebrale un'asimmetria tra i due sistemi linguistici, tanto, osserva Moro, "che una lesione cerebrale può renderci incapaci di utilizzare una lingua, mentre continuiamo a parlarne e comprenderne un'altra".
Dal punto di vista fisiologico, un'analisi con tecniche di neuroimaging mostra che in una persona che parla due lingue fin da piccola alcune aree dell'emisfero sinistro del cervello, deputate alle funzioni linguistiche, si attivano in modo analogo quando si utilizza l'una o l'altra lingua. "Se invece la seconda lingua è stata imparata più tardi si nota una differenza nell'attivazione, che varia a seconda del tipo di compito proposto", spiega Stefano Cappa, docente di neuroscienze cognitive all'Università San Raffaele: "Per esempio, nelle prove di comprensione l'attivazione cerebrale è tanto maggiore quanto meglio si conosce la lingua utilizzata, perché si colgono più sfumature di significato. Se invece si deve parlare, il cervello si attiva di più se si tratta di un lingua che non conosciamo molto bene".
La questione insomma è complessa, tanto che, sempre più spesso, i ricercatori usano il bilinguismo come una specie di bisturi cognitivo per capire come funziona il cervello: si è visto ad esempio che se una persona bilingue, parlando, passa improvvisamente da una lingua all'altra si attivano aree diverse del cervello a seconda del punto della frase in cui avviene il passaggio.
Non solo. I neuroscienziati hanno anche scoperto che il cervello è in grado di distinguere una lingua vera da una inventata. "Se si chiede a qualcuno di studiare una lingua inventata per l'occasione, dotata di una grammatica impossibile, il suo cervello non sfrutta le aree cerebrali deputate all'apprendimento linguistico, ma ne utilizza altre", racconta Moro. Una conclusione possibile, allora, è che per trarne vantaggi in termini di salute cerebrale, bisogna studiare una vera lingua. Vera, naturalmente, dal punto di vista linguistico: molti studi sul bilinguismo vengono fatti in Paesi dove si parlano abitualmente più lingue, ma gli scienziati hanno dimostrato che dal punto di vista della plasticità cerebrale un dialetto dotato di una propria grammatica e di un vocabolario non ha niente di diverso rispetto a una lingua.
Ce n'è abbastanza per precipitarsi a comprare grammatiche e dizionari. Le possibilità che ci aiutino a proteggerci il cervello ci sono tutte. E, quantomeno, non ci sono controindicazioni. Ci sta pensando anche il Darpa, l'agenzia americana che sviluppa nuove tecnologie per uso militare, e che sta finanziando studi per capire la connessione tra l'apprendimento delle lingue e sviluppo cognitivo e la memoria.