Il quotidiano inglese è diventato l’esempio di come affrontare la sfida digitale. Con un sito ricchissimo, scoop mondiali, partecipazione dei lettori. Ma non fa abbastanza utili, anche se è crescita. Così la sua sfida è il simbolo della difficile transizione dalla stampa verso il web

Avete presente il concetto di “traversata del deserto”? Di solito si usa per definire un percorso travagliato al termine del quale c’è tuttavia una meta: magari un’oasi. Bene: quella che sta facendo uno dei più brillanti e moderni quotidiani del mondo, “The Guardian”, è sicuramente una coraggiosa traversata nel deserto. Ma nessuno sa se alla fine c’è un’oasi o la morte di stenti, tra le dune del nulla. E la sua vicenda è diventata un “caso-pilota” a cui guardano editori, giornalisti e lettori di tutto il mondo.

UNA STORIA QUASI PERFETTA
Il giornale inglese infatti è stato quasi “perfetto” nell’affrontare l’era della Rete e della Web reputation: autentico cane da guardia del potere, ha inanellato scoop e inchieste che ne hanno accresciuto l’autorevolezza in tutto il mondo; ha sfidato prima l’impero Murdoch (scoprendo lo scandalo delle intercettazioni) poi la Casa Bianca (con i file di WikiLeaks e la vicenda Snowden-Nsa); ha sempre mantenuto l’indipendenza da qualsiasi partito o potentato economico; ha puntato senza paure su Internet, con un sito molto ricco e gratuito (archivio compreso), ma anche con una forte politica di socializzazione e stimolando il crowdsourcing: il database sulle spese irregolari dei deputati britannici, costruito con il contributo di oltre 20 mila lettori, è diventato un caso di scuola di giornalismo partecipativo.

Tutto molto bello. Tranne i conti, drammaticamente in rosso: cinquanta milioni di dollari persi nel 2012, nonostante il sito Web (con i suoi 84 milioni di visitatori al mese) sia il terzo al mondo tra quelli dei quotidiani in lingua inglese, appena sotto il popolare “Daily Mail” e il colosso “New York Times”.

Il motivo? Semplice: le copie di carta vendute dal “Guardian” sono solo 190 mila al giorno (dimezzate in dieci anni) mentre i fatturati pubblicitari che provengono dall’on line sono sì in crescita (più 29 per cento nell’ultimo anno) ma ancora troppo scarsi per tenere in piedi una redazione con quasi 600 giornalisti in tutto il mondo, tra tutte le piattaforme.

Di qui la grande domanda, che non riguarda solo il “Guardian” ma tutti coloro che negli ultimi anni hanno fatto il tifo per questo modello di giornalismo aperto al nuovo e tutt’altro che ostile verso il Web: ce la farà o no ad attraversare il deserto, cioè ad arrivare all’epoca in cui una grande impresa editoriale sta in piedi puntando sul digitale?

LA SFIDA PER UN BRAND GLOBALE
Secondo i responsabili della fondazione senza scopo di lucro che possiede il “Guardian”, lo Scott Trust, se si continua così ci sono soldi ancora per tre-cinque anni, poi basta. Però è anche vero che le perdite dell’ultimo esercizio sono state di quasi un terzo inferiori a quello precedente. Così come è indubitabile - per il “Guardian” come per tutti - che in questo periodo alla crisi strutturale (il passaggio dalla carta all’on line) si aggiunge quella contingente, cioè la riduzione degli investimenti pubblicitari in tutto il mondo, coda lunga della recessione.

Intanto i vertici dell’azienda e del giornale - con il direttore Alan Rusbridger in testa - si sono autoridotti lo stipendio contribuendo a una “spending review” che ha riguardato diversi settori del giornale. Ma niente tagli lineari, anzi: dal 30 luglio scorso, ufficialmente, il “Guardian” non è più un giornale “inglese” bensì “di lingua inglese”, che ha incrementato i suoi uffici e i suoi giornalisti nelle nazioni dove si parla (e quindi si legge) lo stesso idioma, dagli Stati Uniti all’India. È nato così il sito con il suffisso “.com” che oggi fa concorrenza diretta proprio al “New York Times”.

Obiettivo: diventare un brand digitale globale, molto oltre i confini dell’isola in cui è nato. Eccola qui, la possibile meta dopo la traversata nel deserto: dimensioni mondiali e fatturati on line conseguenti. Un rilancio “anticiclico” basato proprio su quel prestigio, quell’autorevolezza e quell’amicalità verso il pubblico del Web che il “Guardian” ha coltivato in tutti questi anni. Ma anche su quell’immagine di testata “poking the establishment”: che rompe le scatole ai poteri forti, diremmo noi. Quindi in grado di creare un senso di appartenenza trasversale fra i cittadini che protestano in tutto il mondo, da Occupy Wall Street ai manifestanti di Istanbul. Gli stessi che del “Guardian” hanno molto apprezzato le battaglie al fianco di Assange e di Snowden.

DEVE INTERVENIRE LO STATO?
Se però poi torniamo a parlare di numeri, lo scenario è ancora molto incerto. I proventi dalla pubblicità sul Web, appunto, «vanno a coprire solo una minima parte dei costi necessari per un giornalismo di qualità», come denuncia David Leigh, che del “Guardian” è vicedirettore. Negli Stati Uniti, il mercato-guida, i giornali sono il settore con la mortalità più veloce: negli ultimi cinque anni hanno perso circa il 28 per cento degli organici. La pubblicità digitale, complessivamente in crescita, va però soprattutto altrove: Yahoo!, Microsoft, Facebook e Aol nel 2012 si sono mangiate da sole 23,9 miliardi di dollari su una torta globale di 37,31 (dati eMarketer): ai siti di news restano le briciole.

Forse l’equivoco è proprio credere che una sola fonte di incasso - la pubblicità on line - possa sostituire i ricavi che una volta provenivano dal combinato disposto tra vendite di copie e inserzioni cartacee. Quindi sempre più si pensa che per tenere in piedi un’azienda editoriale sana i proventi debbano essere diversificati. E allora ecco, ad esempio, la proposta di Leigh, non certo disinteressata: una tassa di due sterline su ogni abbonamento per la connessione a banda larga, soldi da destinare poi ai vari quotidiani a seconda del numero di lettori on line.

Un’idea che ovviamente non piace ai fornitori di connettività, cioè le varie telecom, ma neanche ai puristi del mercato che parlano di «richiesta di sovvenzioni statali per un mercato in declino, un po’ come se si tassasse Amazon per sostenere le vecchie librerie in crisi» (Lewis Dvorkin su “Forbes”).

Si scontrano due visioni: chi considera il giornalismo di qualità un bene pubblico, che la società deve tutelare (questa è da anni la tesi del filosofo tedesco Jürgen Habermas), e chi pensa che le aziende editoriali siano invece come tutte le altre, o vanno in pareggio o muoiano. Certo è che il metodo proposto da Leigh avrebbe i suoi “bug”: ad esempio, lo scandalistico “Daily Mail” alla fine porterebbe a casa più soldi dello stesso “Guardian”. E un’imposta sulla banda larga sarebbe nociva in termini di digital divide, specie nei paesi in coda alle classifiche di penetrazione di Internet, come l’Italia.

CANTIERE DELLE IDEE
Un modello un po’ diverso, ma sempre basato sull’intervento statale, è quello in fase di sperimentazione in Francia, dove il governo Hollande ha raggiunto un accordo con Google perché finanzi un fondo per lo sviluppo di progetti editoriali digitali e innovativi. Sessanta milioni di euro, quindi poca cosa, ma è passato un principio: dato che i motori di ricerca alimentano il proprio traffico (e quindi i loro introiti) anche grazie ai contenuti dei siti di news, devono riconoscere a questi - indirettamente - una sorta di obolo. E c’è anche chi propone di obbligare le grandi corporation della Rete (Google, Facebook, etc.) a condividere le proprie banche dati sugli utenti con gli editori, in modo che anche i giornali abbiano a disposizione i “big data” sui lettori e quindi possano personalizzare gli “ads”.

Più in generale, la strada della profilazione pubblicitaria è tra le più battute: ad esempio, ci sono aziende come l’americana Enliken che propongono ai giornali di chiedere al lettore - anziché soldi - informazioni sui suoi gusti di consumo, per poi offrirgli pubblicità mirata; un’altra soluzione, testata da “Sport Illustrated”, è chiedere all’utente di scegliere quale videospot vuole vedere, in una rosa di possibilità, prima di accedere ai contenuti: si ipotizza che in questo modo ogni clip commerciale sia vista da chi è potenzialmente interessato a quel prodotto, quindi aumenti di valore.

Altri ancora invece insistono sul concetto di “community”, di giornale come nodo e luogo di incontro digitale e fisico tra persone con visioni e istanze simili, ipotizzando che quando si è creata una community solida - nell’era dispersa della società liquida - la sua monetizzazione sia molto più facile. Poi c’è chi suggerisce di puntare tutto sul mobile (la propensione all’acquisto sui device tascabili è maggiore di quella via pc), chi propone di aumentare il traffico cavalcando l’onda crescente della “gamification” (cioè dell’offerta di notizie in modo interattivo e ludico), chi consiglia semplicemente di rinunciare a fare informazione generalista (le news sono sempre più “commodity”, ormai questo è abbastanza acclarato) per concentrarsi su quella verticale, se non di nicchia, per la quale una fascia di lettori specializzata è forse disposta a pagare. E c’è chi pensa che la strada sia puntare solo sui commenti, le analisi, le interpretazioni, di cui i lettori-cittadini più avveduti sentono sempre più l’esigenza, confusi proprio dal flusso ininterrotto e liquido delle news-commodity.

NELLA TERRA DI MEZZO
In tutto questo resta ancora appeso nella terra di mezzo il tentativo più diffuso fra i big editoriali nordamericani, come il “New York Times” e il “Los Angeles Times”, basato sul cosiddetto “freemium”, cioè un po’ free e un po’ premium: la homepage del sito e un tot di articoli gratis, dopo una certa soglia però scatta il pagamento. Finora il sistema non ha portato incassi tali da sostenere tutta la baracca, ma al “Nyt” gli abbonati sono già 650 mila e in continua crescita. Inoltre questo meccanismo va a fare cassa senza uccidere il sito e il suo traffico, come invece spesso accade quando il “paywall” è rigido: tanto che, ad esempio, il “Dallas Morning Star” e il “San Francisco Chronicle” sono tornati sui propri passi dopo averci provato. Resta lucchettato, tra i big, solo il “Times” di Londra, che di ogni articolo offre on line le prime righe, invitando quindi l’utente ad abbonarsi al sito per due sterline a settimana. Un’altra sperimentazione riconducibile al freemium è quella del “Washington Post” (ora di Jeff Bezos) che ha creato un gruppo di lavoro dedicato ai sondaggi per venderli ai privati e aziende; altri pensano di fare lo stesso con i database, magari da realizzare in crowd con gli utenti.

In Italia alcune testate, come “Il Sole 24 ore”, vendono on line libri e manuali digitali: anche l’offerta a pagamento di e-book prodotti dai giornalisti, soprattutto quelli “instant” sui fatti più recenti, è considerata una possibilità da percorrere per fare ricavi. L’idea è sempre quella di «proporre un buffet di servizi diversi per vendere più cose», come suggerisce Ken Doctor, analista del Nieman Journalism Lab di Harvard: utilizzando come vetrina un luogo comunque molto trafficato come può essere un grande sito giornalistico ricco e in buona parte aperto.

Nel nostro Paese un sistema tipo freemium è stato sperimentato con poco successo dalla “Gazzetta dello Sport” (con il canale a pagamento Gazzastar, dalla vita breve) e lo è ancora, in modo diverso, dal “Fatto Quotidiano”, che offre dei servizi in più - ad esempio, l’archivio del cartaceo dell’ultima settimana - a chi si fa “sostenitore” per 3,99 euro al mese. Restano invece gratis, ma con i bilanci in rosso, le poche testate solo on line del nostro Paese (come “Linkiesta”, “Il Post” e “Lettera43”) e, per ora, i siti dei maggiori giornali cartacei.

Tutti, appunto, guardano al “Guardian” e alla sua sfida immane. Secondo il docente e studioso del Web Jeff Jarvis, che del “Guardian” è consulente, la prospettiva potrebbe essere quella di ridurre, intanto, la frequenza d’uscita dell’edizione cartacea: quattro o cinque numeri in edicola al mese, di approfondimento e di riflessione, il resto on line. Sarebbe comunque un passaggio verso una testata soltanto sul Web, «immaginabile fra cinque-dieci anni», come ha spiegato al “New Yorker” il direttore del “Guardian”, Rusbridger. Aggiungendo che né lui né il suo giornale, alla fine, sono o si sentono «talebani del gratis». Anche on line, insomma, le ideologie sono morte: e tutte le strade sono aperte per attraversare la rivoluzione digitale mettendosi alle spalle il deserto.

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