C'è Nicoletta che passa ore davanti allo specchio per sorvegliare invisibili cuscinetti di adipe che le sembra deformino un corpo in realtà snello e proporzionato. E poi Anna che è andata dal medico perché dopo pranzo sente lo stomaco pieno, Laura che non mangia pasta da anni, Simonetta che una volta alla settimana inghiotte lassativi e diuretici per non ingrassare. Come loro, sono migliaia; e non sono anoressiche, non nel senso tradizionale del termine, perché non rischiano la vita. Ma sono comunque condannate a un'esistenza segnata dalle diete e dall'ossessione del peso corporeo. Malate di quelli che gli esperti chiamano disturbi alimentari sotto soglia o disturbi dello spettro alimentare. Perché ormai è chiaro: tra un rapporto sano e normale con il corpo e il cibo e l'anoressia vera e propria - quella che porta a pesare meno di 40 chili, all'alimentazione forzata, alla morte - c'è un'ampia zona grigia di malessere che in molti casi si trasforma in patologia vera e propria.
«Su mille donne tra i 12 e i 25 anni, tre sono anoressiche, dieci bulimiche e ben 70 hanno patologie parziali in cui solo alcuni dei sintomi dell'anoressia compaiono, oppure si manifestano per breve durata o in forma intermittente», spiega lo psichiatra Giovanni Caputo. Lo sanno bene gli specialisti, che questi disturbi li studiano da tempo e non ne sottovalutano l'importanza perché hanno visto che possono evolvere in disturbi più gravi, «anche se sono poco divulgati perché meno drammatici», precisa lo psichiatra. Eppure chi soffre di quella che potremmo definire "quasi anoressia" sta male e spesso non riesce a chiedere aiuto.
«È difficile formulare una diagnosi per queste pazienti e quindi avviare un percorso terapeutico», osserva Armando Piccinni, psichiatra e autore di un saggio sull'argomento da poco in libreria col titolo "Drogati di cibo" (Giunti 2013). Chi non accetta il proprio peso corporeo in genere si rivolge al dietologo, non allo psichiatra. E così accantona i problemi che si nascondono dietro l'ossessione per la bilancia. Che nasce nella società. Come spiega Caputo: «Il nostro mondo è malato di cibo, e la spinta al consumo non è più organizzata da bisogni reali, ma dalle pressioni culturali». Insomma, sempre più spesso le persone decidono quanto vogliono pesare e corrono ai ripari se la realtà non corrisponde ai loro desideri. Così la quasi-anoressia nasce da un desiderio distorto. «Questo disturbo si manifesta in vari modi, in forma intermittente, con sintomi più o meno marcati, ma alla sua origine c'è comunque un rapporto alterato con il cibo e un controllo ossessivo sul corpo», precisa Piccinni.
In qualche caso il simbolo del disagio è lo specchio, osservato ossessivamente. Gli esperti lo chiamano body checking: il controllo continuo del corpo è uno dei sintomi che definisono l'anoressia, ma anche se è l'unico comportamento strano e non è accompagnato dalle altre manifestazioni patologiche, può essere un campanello di allarme, soprattutto se la persona si guarda allo specchio in cerca di una perfezione che non esiste. E in ogni caso non deve essere sottovalutato: «È importante soprattutto capire quanto risultino irrealistiche le convinzioni relative al proprio corpo o il desiderio di raggiungere forme non possibili, soprattutto per quanto riguarda alcune sue parti, come le cosce o la pancia», aggiunge Caputo. Certo, chi soffre di questi disturbi non corre rischi immediati ma rischia di sviluppare forme croniche, con conseguenze paradossalmente anche più gravi rispetto alle forme maggiori. E può andare incontro a carenze nutrizionali dovute al rifiuto di alimenti importanti come i latticini o a una ricerca accanita di cibi sani che si trasforma in un'ossessione.
Perché sostanzialmente è di questo che si tratta: «Le quasi anoressiche fanno fatica a gestire la più naturale delle funzioni fisiologiche, il loro disturbo riguarda la relazione con il corpo e la percezione stessa del significato di cibo», spiega Erna Lorenzini, specialista in scienza dell'alimentazione e docente all'Università di Milano. Qualche esempio? «Ci sono pazienti, in genere abbastanza magre, che arrivano preoccupate perché dopo mangiato si sentono gonfie. Ma poi viene fuori che il gonfiore passa nel giro di poco. E questo esclude intolleranze o altre patologie. Il loro problema è che non accettano i mutamenti fisiologici: percepiscono la pancia piena come un'anomalia, il cibo come un alieno che le invade». E il disagio cresce quando il corpo cambia per ragioni naturali: ci sono trentenni con una gravidanza alle spalle, oppure donne in menopausa che vorrebbero tornare al peso dei vent'anni».
Così accade che molte donne non riescano ad accettare cambiamenti fisiologici dovuti all'età e ai cicli ormonali. E questo giustifica il fatto che oggi, più che in passato, si vedono comparire disturbi in età matura , tra i 30 e 50 anni, «e a volte succede che una sindrome parziale presente in adolescenza e in apparenza scomparsa si ripresenti anni dopo, anche in forma di conclamata anoressia», spiega Caputo.
E poi c'è l'adolescenza, stagione di cambiamento in cui il bisogno di cibo diminuisce drasticamente rispetto all'infanzia ma aumenta la spinta a consumare grassi e zuccheri, senza contare che il cibo diventa in questa fase della vita occasione per socializzare: così c'è chi mangia e vomita e ci sono le drunkoressiche che rinunciano al cibo per poter bere alcolici a volontà, e bevono per non sentire la fame. «Ci sono studi che mostrano come tra le ragazze i disturbi dell'alimentazione sottosoglia siano cinque volte più frequenti rispetto alle patologie vere e proprie», spiega Piccinni: «L'adolescenza è il momento in cui le giovani donne sono portate per ragioni culturali ad aderire a modelli ideali di bellezza che oggi esaltano la magrezza, mentre i ragazzi sentono l'esigenza di esibire un fisico muscoloso, prestante. Senza contare i messaggi contraddittori della pubblicità, che promuovono una linea perfetta ma anche cibi ipercalorici come dolci o snack».
E i genitori molte volte non capiscono la natura del problema, peggiorando il quadro.«Arrivano in studio adolescenti appena un po' tondette portate dalla mamma che dice "tre anni fa non era così"», racconta Lorenzini. È il sintomo di una pressione sociale che impone di controllare il corpo e genera preoccupazioni spropositate che possono aprire la porta alla patologia: diventa normale privarsi del cibo senza motivo o senza capire che cosa abbia originato il sovrappeso, non mangiare quando si ha fame, non scegliere i cibi preferiti.
«Esistono due tipi di appetito, quello alimentare - si mangia perché si ha fame - e quello edonico: si mangia per il piacere di farlo o per rilassarsi», osserva Piccinni: «Entro certi limiti l'esigenza di piacersi è naturale e anche socialmente utile, ma quando travalica certi limiti e diventa ossessione possiamo parlare di patologia e di una distorsione della percezione corporea». E la dieta finisce col diventare una specie di coperta che nasconde disturbi di ordine psichico, per cui il cibo è al tempo stesso sintomo e terapia. In molti casi il disagio resta contenuto, per poi riemergere nei momenti di particolare stress, quando può trasformarsi in un vero e proprio disturbo: «Se tracciassimo un grafico per confrontare l'andamento dell'umore e la relazione con il cibo scopriremmo che le due cose sono legate», spiega Piccinni. Così il mangiare diventa un contenitore di ansie non dichiarate: «Paradossalmente queste persone si privano del cibo reale, ma in modo simbolico sono invase dal cibo, non pensano ad altro», aggiunge Lorenzini. In una frenetica ricerca di ordine e controllo che può mascherare un disordine interno.
La soluzione, però, non sta in una dieta. Per affrontare queste ossessioni è indispensabile la valutazione di uno specialista che stabilisce un percorso di cura. «Per una sindrome parziale in genere bastano una psicoterapia e una sorveglianza nutrizionale adeguata al caso», spiega Caputo. «Purtroppo di queste sindromi si parla ancora poco, e ci sono pazienti che arrivano dallo specialista dopo aver inseguito per anni diete o trattamenti estetici».
Nei casi meno drammatici può essere sufficiente guidare il paziente alla consapevolezza dei suoi comportamenti malsani, magari anche solo con informazioni chiare: «Alcuni pazienti si tranquillizzano con dei semplici esami che permettono di capire se c'è davvero massa grassa da eliminare», spiega Lorenzini. Altri hanno bisogno di capire che il peso forma non esiste, e quello che si legge è in realtà un calcolo statistico fatto sulla media della popolazione; devono sapere che il fabbisogno calorico cambia con l'età e che per stare bene bisogna muoversi di più: «Ma soprattutto bisogna essere più flessibili, imparare ad accettare il mutamento, il pieno e il vuoto, la fame e la sazietà», conclude Lorenzini. «Perché sono gli umani che cambiano nel tempo».