Sei felice?», domanda Ivo (Gabriele Rendina) al padre Antonio (Antonio Albanese, misurato e intelligente). Quello resta in silenzio e gli risponde con un sorriso diretto e semplice come il cognome che porta, Pane. Ha certo una propria tenera felicità, il mite e coraggioso protagonista di "L'intrepido" (Italia, 2013, 104'). E con tenerezza lo raccontano il cosceneggiatore Giacomo Lantieri e Gianni Amelio, che in lui trova alcuni degli elementi più profondi della sua poetica.
Come il Vincenzo Buonavolontà di "La stella che non c'è" (2006), Antonio ama il suo lavoro. Ancora meglio, ama il lavoro. Lo ama nella sua materialità, e ama farlo bene, come accadeva in tempi lontani, in un'Italia ben più povera e dignitosa. Ma gli tocca stare in questa, nelle sue nuove ingiustizie e nelle sue nuove volgarità. E in questa Italia il lavoro spesso non c'è. Quando poi c'è, capita che non definisca la vita e l'identità di chi lo fatica. In lui, al contrario, resta intatto il piacere di stare nel mondo trasformandolo, e di farlo con l'attenzione e la serietà di un mestiere. Antonio, dunque, fa il "rimpiazzo".
Infaticabile e sereno, giorno dopo giorno sostituisce chi non possa o non voglia lavorare. Ma non lo pagano per la sua fatica. Lo sfruttano, e per giunta si aspettano da lui riconoscenza. Metafora trasparente, questa, di un Paese dominato da una cinica prepotenza economica e da una irresponsabilità sociale che si sono fatte ideologia. Né cinico né prepotente, Antonio si sente invece responsabile: responsabile per l'infinita malinconia di Lucia (Livia Rossi), di cui forse è innamorato e che per l'età potrebbe essere sua figlia, e responsabile per Ivo, musicista che stenta a conoscere e a far riconoscere la propria arte. C'è qui, in questa sollecitudine paterna, la parte più tenera della poetica di Amelio, a partire almeno da "Il ladro di bambini" (1992) per arrivare a "Le chiavi di casa" (2004).
È felice, dunque, Antonio Pane? Prima ancora, è possibile esser felici in un mondo che ha negato e tradito l'immediatezza e la semplicità di quella che Pier Paolo Pasolini - certo in parte illudendosi - chiamava appunto l'età del pane? La risposta vive nel sorriso del protagonista: in quello rivolto al figlio e alla sua domanda, e in quello che al termine del film rivolge a noi, mite e coraggioso come una speranza.