Esce in alcune sale delle principali città italiane il nuovo docufilm di Daniele Gaglianone. Si intitola 'La mia classe' e ha per protagonista (e unico attore professionista) Valerio Mastandrea. Nel ruolo di un maestro che insegna l'italiano agli adulti extracomunitari che studiano la nostra lingua per ottenere il permesso di soggiorno

Essere a casa. Essere di casa. Sentirsi a casa. La differenza semantica tra queste tre espressioni non è affatto scontata, se a doverle usare è uno straniero. E stranieri, almeno secondo la legge e sebbene vivano in Italia da anni, sono gli alunni extracomunitari di tante classi di adulti alle prese con un corso serale di lingua italiana presso i Centri Territoriali Permanenti. Indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno di lungo periodo, ma precluso a chi non ha già i documenti necessari per potere frequentare le lezioni.

Un groviglio burocratico tutto italiano da cui è iniziato il coraggioso e anomalo cammino del film di Daniele Gaglianone, “La mia classe”, con Valerio Mastandrea. Un film che esce dai binari della tradizionale cinematografia, venuto fuori a suo modo, quasi animandosi in fase di lavorazione di una propria volontà, autonoma persino da quella di chi lo ha concepito e messo in piedi. Passo dopo passo, pezzo dopo pezzo.

L’idea è nata nella testa di Claudia Russo e Gino Clemente, coautori della sceneggiatura insieme al regista, sulla falsariga di “Diario di un maestro” di Vittorio De Seta, tanto che anche “La mia classe” di Daniele Gaglianone una sceneggiatura definitiva non l’hai mai avuta. Uno scheletro premontato, piuttosto, sul quale poi modellare in campo il corpo di ogni scena, fatto di improvvisazione, facce, muscoli ed emozioni vere.
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«Una volta deciso l’argomento della “lezione”, spesso si girava senza riflettere troppo su ciò che sarebbe accaduto in classe» racconta Gaglianone, esperto di documentario e già regista di due film importanti come “Pietro” e “Ruggine”. «La cosa più difficile è stato mantenere la concentrazione, eravamo tutti consapevoli che l’operazione era rischiosa e la natura duale del film tra realtà e finzione rispecchia il nostro approccio con il set, riflesso alla perfezione nel ruolo di Valerio Mastandrea. Anche lui, alla fine, è diventato qualcun altro, così come il film è diventato qualcos’altro da ciò che doveva essere in origine».

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Il confronto tra il talento drammaticamente ironico e disincantato di Valerio Mastandrea nei panni del maestro, unico personaggio di finzione (almeno nella genesi), e la verità di un gruppo di uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo che hanno accettato di mettersi in gioco, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ha creato un cortocircuito che rompe con le regole persino dell’ormai consolidato genere del docu-film.

«L’anomalia» spiega Valerio Mastandrea «sta nell’avere messo in scena in modo critico la nostra idea di cinema e una riflessione personale sulla sua utilità. Abbiamo portato in campo una serie di domande costanti che tutti noi ci poniamo nel rapportarci con questo mestiere, volevamo che il pubblico capisse che anche l’attore, il regista o il produttore si chiedono a cosa serve ciò che fanno. Ad un certo punto, di fronte certe problematiche che venivano fuori durante le riprese, abbiamo capito che non basta più fare film che stimolino il dibattito, bisogna fare cose concrete».

Un po’ film, un po’ documentario, un po’ backstage con il set che entra ed esce dal campo per marcare il territorio delle scene in costruzione, “La mia classe” esplora la tematica dell’immigrazione e dell’integrazione ma finisce con l’interrogarsi sul senso stesso del cinema. Di fronte a questioni umane che richiedono soluzioni pratiche come il procurarsi un lavoro per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno, nel rispetto della dignità personale contro la schiavitù del bisogno e dello sfruttamento. O dell’indifferenza, quella stessa che Daniele Silvestri canta ne “L’autostrada”, scelta come strumento didattico e sottofondo in una della scene più suggestive del film.

Un film in cui si ride di gusto, per l’ironia malinconica e spontanea di Valerio Mastandrea, piena di intelligenza e cuore nel suo essere sempre più persona e sempre meno personaggio, e per la simpatia travolgente dei suoi coprotagonisti che mai avrebbero pensato di fare gli attori. Sebbene siano risate fatte anche di rabbia e commozione, che stringono il cuore con tenerezza e onestà.

Lavorare con attori non professionisti è stato molto stimolante per Valerio «anche perché, a lungo andare, l’esperienza per un attore può diventare una trappola. In questo continuo dentro e fuori, tra discussioni e confronti costanti, ci trovavamo a girare anche per tre ore consecutive con un faticoso lavoro di attenzione e concentrazione necessario per stare dietro a ciò che accadeva nel frattempo. A volte mi infervoravo a tal punto che era impossibile fermarmi! Questo film è andato oltre la costruzione tradizionale di un personaggio e tutti noi abbiamo vissuto i nostri ruoli in modo nuovo».

Dopo avere girato all’estero in diversi festival, “La mia classe” è approdato nelle sale italiane con una distribuzione ardita e difficoltosa. Inizialmente solo a Milano, Ancona e Brescia la scorsa settimana, ma arriverà in questi giorni anche in altre città tra cui Roma, Firenze e Catania, grazie ad un numero sempre crescente di richieste da parte degli esercenti che sostengono il cinema indipendente di qualità.

Il film che avrebbe dovuto essere, “La mia classe” non lo sarà mai. Ma è qualcosa di meglio, nella sua imperfezione, chiaro e lineare nonostante una complessità narrativa difficile da dipanare. Soprattutto sul finale che, evitando comunque di accartocciarsi su quel fenomeno anomalo che tutto il film è diventato, si chiude svanendo sul movimento e sul rumore del mare. Quel mare che, per molti dei suoi protagonisti, continua a portare con sé un’eco lontana che parla di casa. A chi, in Italia, continua ancora a sentirsi uno straniero.

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