
Troppo?, chiediamo agli addetti ai lavori. «Sì, troppo», risponde Vincenzo De Bellis, direttore di Miart, la fiera di Milano che ormai contende a Torino il primo posto nelle agende delle gallerie che contano. «Troppe fiere per il collezionista, troppe per le gallerie. Ma evidentemente non troppe per il mercato». «C’è tutto di troppo in questo mondo. È un mondo che si nutre del troppo», risponde filosoficamente Massimo De Carlo, numero uno dei galleristi italiani e numero 81 dei 100 più potenti personaggi del mondo dell’arte mondiale.
Parola di “Art Review” rivista internazionale con base a Londra che stila ogni anno un’ambita classifica dove, per quel che conta (ma poi alla fine conta), boccia e promuove il top del top tra collezionisti, direttori di musei, curatori, galleristi etc...
De Carlo in quella lista c’è sempre. Due postazioni sopra o tre postazioni sotto, garantisce al nostro tricolore presenza costante. Del resto, con due importanti gallerie (un immenso loft a Milano in zona Ventura Lambrate e due piani di un elegante palazzetto di Mayfair a Londra) più dodici fiere l’anno, la sua è un’impresa solida.
Gestire una fiera al mese costa molto: significa quasi il quaranta per cento del tempo del gallerista e del suo staff. Ed è difficile stabilire la percentuale sul budget annuo, ma di sicuro supera quel quaranta per cento. Però è una fatica che regala contatti internazionali, immagine, stampa e naturalmente affari. Seduto nel suo stand - che ha appena traslocato dal tendone di Regent’s Park di Frieze alla luce zenitale del Grand Palais, che regala alla Fiac una delle più belle location del mondo - Massimo De Carlo spiega: «Dodici fiere l’anno sono dodici mostre in giro per il mondo con tutto il loro corredo di incontri, cene, glamour. Perché la fiera è un aggregatore di forze diverse: addetti alle pubbliche relazioni, critici, direttori di musei, collezionisti, giornalisti. Tutti coloro che operano a vario titolo sul mercato e nel mondo dell’arte sono qui rappresentati e riuniti. Una fiera è l’evento degli eventi di una galleria in un luogo pieno di eventi concorrenti».
Dunque: “à la guerre!”. Mai come quest’anno sotto il tendone di Frieze gli stand hanno combattuto come leoni, non badando a spese e assoldando artisti, architetti, interior decorator per dare il massimo dello spettacolo. Più che stand: padiglioni con le loro scenografie, installazioni, video, piccole pièce teatrali o provocazioni come la “zuppa radioattiva” distribuita dai giapponesi United Brothers che ha funzionato da lancio mediatico dell’intera fiera.
La potente galleria Hauser&Wirth ha affidato il suo spazio all’immaginifico Mark Wallinger (new entry nella loro scuderia). E lui lo ha trasformato in opera totale, ispirandosi allo studio di Sigmund Freud e dividendo lo stand in due metà: una rossa damasco (inconscio) e una verde (ragione). E lì ha raggruppato in modo onirico le opere, compreso un terapeutico lettino damascato, e una performance: il custode in uniforme appisolato sulla sedia, tanto verosimile che più di un visitatore solerte ha sentito il bisogno di denunciare quello scioperato avvertendo i responsabili. Anche Larry Gagosian, lasciando le vesti di Squalo per quelle di nonno, ha puntato tutto su un artista: si è affidato a quel giocherellone di Carsten Holler, il quale ha trasformato l’ingresso di Frieze in un parco giochi, zeppo di opere (sue) e di scatenati pargoli di collezionisti, felici finalmente di girare e trattare sui prezzi senza piagnucolosi figli a carico.
In realtà investire sull’effetto mediatico porta bene alle casse dei galleristi. Da Hauser&Wirth l’inconscio dei compratori ha fatto fare buoni affari alla galleria svizzera: bollini rossi di opere vendute spuntavano fin dal primo giorno su opere di Allan Kaprow (da 40 a 500mila dollari) o Eva Hesse (450mila) mentre l’appartamento tipo del collezionista parigino anni Sessanta, ricostruito nei minimi dettagli (comprese cicche di Gauloises nei posacenere e vinili gracchianti con voce di Édith Piaf) da Helly Nahmad a Frieze Masters è stato postato in tutti i siti e stampato su tutte le gazzette.
Se le gallerie s’industriano per colpire al cuore l’immaginazione dei visitatori, anche la fiera nel suo complesso non può permettersi di restare solo fiera. Quel processo che già anni fa era iniziato come approfondimento culturale con progetti sperimentali che interrompevano i corridoi commerciali o incontri con critici, artisti e curatori, si sta sempre più trasformando in intrattenimento.
Ed ecco una densa programmazione di spettacoli, performance, danze, improvvisazioni di ogni genere e natura. A che scopo? Risponde De Bellis, curatore giovane e direttore intrepido che l’anno scorso ha accettato (e già vinto) la sfida di rilanciare una sonnacchiosa milanese Miart: «Il bisogno di eventi non nasce solo da preoccupazione culturale. Da una parte la performance è da tempo sotto l’attenzione del mercato, basta pensare a “14 rooms” (spettacolare evento prodotto dalla fiera Basilea, curato da Klaus Biesenbach e Hans Ulrich Obrist, dove ogni stanza ospitava un’azione e un artista diverso, ndr); dall’altra produrre un calendario per i collezionisti serve a contenere il fenomeno “One day fair”: tutti gli acquisti il primo giorno».
Quello delle “vip card” o delle “vip vip card” (anche fra i vip ci son gerarchie, divisi non solo per giorni ma per fasce orarie), che hanno accesso alle esclusive anteprime dove si passeggia tra i corridoi fra pochi e selezionati intimi. Normalmente celebri. Ma c’è di più: gli eventi difendono la fiera,dalla potenza di fuoco delle gallerie in città che con le loro mostre rischiano di diventare, da vecchi alleati che erano, i più pericolosi dei nemici. Perchè se fu Frieze a far nascere l’Art Week per eccellenza, quella di Londra, che concentrò nei giorni della fiera tutte le inaugurazioni pubbliche e private nonché le più importanti sessioni d’asta (Sotheby’s e Christie’s in primis), oggi l’Art Week rischia di cannibalizzare l’evento madre.
Mai come quest’anno Londra è stata attraversata in lungo e largo per visitare imperdibili inaugurazioni che celebravano ora Gerhard Richter ora Marina Abramovic ora Sigmar Polke ora Alighiero Boetti. L’altra minaccia che grava su Frieze è l’irresitibile ascesa della Fiac di Parigi e la lotta per il secondo posto nella gerarchia globale. Al primo posto - e non si discute - c’è il potere e il prestigio di Basilea (provate a domandare a De Carlo quali sono le prime tre fiere al mondo e vi risponderà “Basilea-Basilea-Basilea”), ma sulla successione al trono è guerra aperta.
«Anything London can do, Paris can do better?», si chiede ansioso l’“Art newspaper”. Perchè nonostante l’ammontare di vendita fra Frieze London, Frieze Masters più aste in città si conti in “billions” di sterline, Londra ha solo il potere del business mentre Parigi punta al cuore dei collezionisti. Parigi è sempre Parigi: e ora lo è anche di più grazie all’apertura della Fondation Vuitton vestita da Frank Gehry; al museo Picasso tutto nuovo e alla contestata opera di Paul McCarthy, il “sex toy” che ha regalato a Place Vendôme le prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Parigi è sempre Parigi perchè la sua fiera non viene stagionalmente montata in un parco e non poggia i piedi su una pedana di legno ma in un capolavoro assoluto dell’archiettura eclettica primi Novecento. In più, Parigi è sempre Parigi perché, come spiega De Bellis. «la forza sotterranea delle fiere in fondo è nel collezionismo locale. E Londra ormai più che una città è diventata una piattaforma della finanza globale. Persino a Basilea l’80 per cento degli acquisti sono svizzeri, per questo credo che la Fiac possa alla fine funzionare meglio di Frieze».
Una buona notizia anche per noi, che nel nostro piccolo abbiamo fiere ben radicate nel tessuto cittadino. Dalla storica ed ecumenica Fiera di Bologna ad Artissima a Torino, che punta sulle ricerche emergenti, fino a Miart a Milano che recupera in maniera intelligente gran parte del moderno sull’onda delle continue conferme di mercato del nostro secondo Novecento.
Direttori bravi (il già citato de Bellis, Giorgio Verzotti e Claudio Spadoni a Bologna e Sarah Cosulich Canarutto nella città sabauda) tutti in inevitabile competizione, stressati dal dover tirar per la giacca i galleristi, farli scendere dalla giostra globale, convincerli a venire nelle nostre fiere. Fatica titanica che cerca alleati ovunque.
Tanto che Artissima a Torino è riuscita a trascinare nella sua settimana di fuoco (dal 6 novembre) la guest star Maurizio Cattelan, che dopo l’addio alle scene torna nel mondo dell’arte nel ruolo di curatore/provocatore della mostra “Shit and die” (“caca e muori”) in palazzo Cavour. Una sorta di wunderkammer che annuncia una carrellata di oggetti e opere simbolo del tema tra morboso, grottesco, putrefatto in quella logica del sublime assurdo che lui ha imposto al mondo come nuova poetica: un modo contemporaneo di intendere la vecchia Vanitas. Metafora di quell’allegra follia di arte&denaro in giro per il mondo, carrozzone da circo che trasporta billions dollars qua e là nel pianeta. “Shit&Die”: e che la fiera cominci!