Al Salone del Libro di Torino il fondatore dell'Espresso parla del suo ultimo libro con l'attuale direttore Bruno Manfellotto. Tra aneddoti di una lunga esistenza ricchissima di incontri e riflessioni sulla classe dirigente del passato e di oggi

Sullo schermo della Sala Gialla del Salone del Libro scorrono immagini a colori e in bianco e nero. Scatti di incontri importanti e ricorrenze, dove vita pubblica e professionale e affetti privati si mescolano. C'è un giovanissimo Eugenio a passeggio con la madre, elegantissima con cappello e veletta. C'è il liceale sorridente. Accanto si riconosce un altrettanto giovane Italo Calvino. C'è il principe Caracciolo, ci sono Susanna Agnelli e suo fratello l'Avvocato.

C'è un giovane Scalfari nello studio di direttore dell'Espresso. Ci sono i colleghi della redazione di Repubblica: Bernando Valli, Giuseppe D'Avanzo, Miriam Mafai. E il successore alla guida del giornale, Ezio Mauro. Ci sono Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni, c'è Mikhail Gorbachev. Dalla platea, il pubblico guarda scorrere le immagini come farebbe con l'album di fotografie di un amico importante, con un misto di deferenza e affetto. Presentato dal direttore dell'Espresso Bruno Manfellotto, ultimo in ordine di tempo a raccogliere il suo testimone alla guida del giornale che ha fondato nel 1955, Eugenio Scalfari è ospite del Salone e dei Dialoghi dell'Espresso per parlare del suo ultimo libro, Racconto Autobiografico (Einaudi).
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Nato per introdurre il Meridiano Mondadori a lui dedicato, è diventato un piccolo volume autonomo dove uno dei protagonisti della vita culturale e politica italiana del Dopoguerra racconta la sua lunga vita (Scalfari è nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924). Nella Sala Gialla del Salone, Manfellotto lo introduce con domande brevi, come per spingerlo ad estrarre dal pozzo dei ricordi e degli aneddoti qualche 'chicca' per il pubblico. Si comincia dagli albori e dalla nascita dell'Espresso. Scalfari ricorda l'incontro con Carlo Caracciolo, il 'principe biondo', il cognato dell'Avvocato Agnelli.

“Io e Carlo avevamo deciso di fondare un giornale. Ma lui non aveva soldi, figurarsi io. Così andammo da Olivetti e da Mattei”. Mentre racconta, Scalfari si muove sulla linea del tempo della sua lunga vita. Ricorda quando fu licenziato dalla Banca Nazionale del Lavoro per alcuni articoli troppo critici sulla Federconsorzi. Ricorda quando, giovane universitario dei GUF, fu espulso da un gerarca fascista per le denunce di speculazione all'Eur che aveva lanciato sul periodico 'Roma Fascista'. “Adoravo la divisa, piaceva alle ragazze. Entrai in crisi, però poi pensai: Se mi espellono per quello che ho scritto, allora vuol dire che non sono fascista”.

Sull'Avvocato è prodigo di indizi che aiutano a inquadrarne il carattere; dice “Non siamo mai stati amici, ma siamo stati intimi”. E rievoca con ironia: “Caracciolo e l'Avvocato facevano le vacanze insieme. La moglie di Agnelli, Marella, restava a Torino. Si sa che l'uomo è cacciatore, e loro cacciavano parecchio. A Caracciolo non pareva dare fastidio il fatto che Gianni fosse il marito di sua sorella”. Poi, dopo che Scalfari ha rievocato il cenacolo che si riuniva intorno a Raffaele Mattioli nella sede della banca che dirigeva, la Comit, in piazza della Scala a Milano (c'erano La Malfa, Adolfo Tino, Leo Valiani, Bruno Visentini) per Manfellotto è quasi d'obbligo chiedergli che cosa pensa della classe dirigente attuale, e se ce n'è una.

Scalfari fa i nomi di un 'quartetto': Matteo Renzi (“che è un seduttore, un ottimo primo violino anche se non un direttore d'orchestra”), Romano Prodi, Enrico Letta, Walter Veltroni. Critica la riforma del Senato come prospettata dal Governo, critica l'idea di Grillo di “governare con i referendum” che porterebbe a uno “scioglimento totale” della vita politica e della democrazia. E' lucido sull'oggi come sul passato. Il direttore gli chiede come mai, a un certo punto della sua esistenza, ha deciso di scrivere di se stesso. E Scalfari cita Rilke e Pessoa, dice: “L'uomo è un animale riflessivo che si vede da fuori. Io mi giudico uno che si guarda vivere. Questo vivere è un pendolo che si sposta. Un po' va verso Mefistofele, un po' va verso l'angelo, ma non tornerà mai più bestia”.  

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