Le piazze si affollano di gente che protesta, le cabine elettorali si svuotano, gli esecutivi si riempiono di tecnocrati. Tutti sintomi del fatto che la forma di governo più amata dall'Occidente versa ormai in crisi conclamata. Come spiegano molti pensatori nei loro libri più recenti

Manifestazione anti-austerity a Londra
La democrazia? «Non è una vetta conquistata per sempre, ma l’instabile punto d’arrivo di un processo intrinsecamente esposto al rischio di crisi e di catastrofe». Parola di Raffaele Simone, linguista e politologo, che dopo aver messo a fuoco nel 2008 il vero volto della nuova destra in ascesa (“Il mostro mite”), oggi si concentra sulla forma di governo che ancora sentiamo nostra ma che attraversa una fase molto difficile.

Una crisi mondiale: dovunque cresce l’astensione e calano le iscrizioni ai partiti, cresce il peso politico di organismi finanziari sovranazionali (Fmi, Bce...) e cala la fiducia nelle istituzioni democratiche, mentre le piazze sempre più piene di proteste testimoniano il senso di distacco dell’elettorato da quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Una crisi dimostrata anche in Italia da un ricco filone editoriale - lo si vede in questo articolo, che si limita a citare testi usciti nelle ultime settimane - e da manifestazioni come la Biennale Democrazia che nel marzo scorso a Torino ha festeggiato la quarta edizione.

Dove porterà questa fase, la nuova analisi di Simone lo dichiara già dalla copertina: “Come la democrazia fallisce” (Garzanti). Un titolo scelto dall’editore («Io avevo proposto “La fata democratica”, che sarà usato nelle tre edizioni straniere già in corso di stampa») che corrisponde perfettamente all’ultimo capitolo del libro. Dove lo studioso mostra come e perché l’Italia del governo Renzi sta facendo da apripista verso quella «democrazia assertiva» o francamente «autoritaria» che si va delineando in molti stati occidentali.

La “Fata democratica” di Simone è il corrispondente “buonista”, progressista e di sinistra, del “Mostro mite” di destra che si è andato affermando negli ultimi anni fino a conquistare seggi su seggi in tutte le recenti elezioni europee. «La democrazia è diventata gradualmente un’entità benefica e onnipotente, una fata alla quale si può chiedere tutto anche a costo di sfiancarla».
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Il Mostro e la Fata: sembrano due personaggi da commedia dell’arte. E in effetti in tutto il saggio i rimandi allo spettacolo sono frequenti, fin dalla tesi di base: la democrazia si regge non su concetti realmente esistenti ma su finzioni. Solo che, a differenza di uno spettacolo teatrale in cui lo spettatore crede a quello che vede pur sapendo che non è la realtà, nel momento in cui le finzioni della democrazia mostrano la corda, secondo Simone il «gigantesco gioco di simulazione» crolla non come un castello di carte - che implicherebbe un progetto razionale e preciso - «ma come gli stecchini dello shangai».

Di legame tra democrazia e teatro avevano già parlato diversi studiosi, da Hans Kelsen a Georges Balandier. Di «palinsesto che Renzi e gli altri insieme e dopo di lui sono chiamati a recitare» parla il politologo Mauro Calise, in un recente saggio sul “Mulino”. «Il titolo di questo palinsesto è lo stesso che, da anni, governa la grande maggioranza dei nostri partner occidentali: siamo diventati anche noi una “democrazia del leader”»: e Calise intitola così un volume in uscita da Laterza nel 2016.

Anche Geminello Preterossi, direttore del Festival del diritto di Piacenza, denuncia l’incombere di una «politica come fiction, che distrae dalla consegna della decisione a logiche non democratiche». In “Ciò che resta della democrazia” (Laterza), Preterossi scrive che «l’inaridirsi degli spazi di partecipazione effettiva determina, per compensazione, il bisogno che nutre l’illusione della democrazia “immediata”, “veloce”, “semplice”». Una deriva pericolosa («Lo scivolamento verso una forma di neoautoritarismo elettivo, nell’indifferenza di un’opinione pubblica sfiancata, può essere molto breve») che secondo Preterossi può ancora essere evitata: «Per impedire che questa espropriazione si compia del tutto, occorre interrompere la fiction, tornare alla forza della politica in carne e ossa, come conflitto e alternativa».

Simone è meno ottimista: «Del resto la mia è un’analisi, non un libro propositivo», sottolinea, anche per prendere le distanze da chi lo ha definito reazionario. E allora ecco quali sono le finzioni che reggono il “gioco delle parti” democratico: «È fittizia la cessione della sovranità: con il voto io cedo la mia volontà in forma inarticolata - mettendo solo una croce su una scheda - a qualcuno che posso anche non aver mai visto e che fino alle elezioni seguenti, non avendo vincoli di mandato, potrà fare quello che vuole. Non è realistica l’uguaglianza: siamo uguali solo in quanto viene permesso a tutti di mettere una croce sulla scheda, poi l’uguaglianza si esaurisce. Ed è irrealistica la formazione di una opinione pubblica informata, che è il presupposto di una libera scelta politica: noi cittadini in realtà andiamo avanti tra stereotipi, informazioni manipolate, notizie false e non controllabili».

Il risultato è una crisi che scatena allarmi in tutto il mondo. In un recente articolo sul “New York Times” che partiva da un sondaggio del World Values Survey sull’importanza dei valori democratici, Roberto Foa e Yascha Mounk hanno collegato al calo di fiducia la tentazione dei cittadini di «lasciar prendere le decisioni al presidente senza preoccuparsi del Congresso e di affidare le decisioni più importanti a esperti e non a eletti, alla Federal Reserve o al Pentagono». Per i due giovani politologi di Harvard, il cuore del problema è economico e può essere risolto con «ambiziose riforme istituzionali che pongano un freno al potere politico dei ricchi». Ma con Donald Trump in testa ai sondaggi per le prossime presidenziali, una proposta del genere sembra arrivare platealmente troppo tardi.

Se Foa e Mounk temono che all’orizzonte si stia materializzando un “governo dell’esercito”, altri politologi invece vedono di buon occhio alcune forme di “democrazia senza elezioni”: perfino il sorteggio delle cariche, come propone David Van Reybrouck nel suo libro appena tradotto da Feltrinelli (e recensito da Giuseppe Berta due settimane fa sull’“Espresso”). Reybrouck, che i lettori italiani già conoscono per il magistrale reportage “Congo”, e che anima una piattaforma politica chiamata G1000, in “Contro le elezioni” lancia una provocazione: rinunciare al voto e sorteggiare le cariche, come facevano i greci.

Una provocazione stroncata sul “Corriere della Sera” da Luciano Canfora (che alla “Democrazia” ha dedicato un longseller pubblicato da Laterza). «Le cariche decisive della città erano elettive», ha ricordato. Ma Reybrouck - che di formazione è archeologo - lo sa, e da Atene parte per un excursus che passa dalla Venezia dei Dogi per finire nell’Islanda di oggi, dove la costituzione è stata modificata attraverso un lungo processo che ha permesso la partecipazione diretta dei cittadini.

Secondo Simone invece «in Italia alla democrazia senza elezioni ci stiamo arrivando a poco a poco. Del resto, da vent’anni non esprimiamo preferenze sui candidati. Il nuovo senato non è eletto dai cittadini e una parte dei deputati saranno nominati dal partito. Il nostro presidente del Consiglio non è stato eletto e la formazione del governo, così ricco di tecnocrati, ricorda la designazione dei componenti di un consiglio di amministrazione».

La frecciata contro i tecnocrati ricorda che i veri nemici, secondo Simone, non sono tanto i politici che vogliono tenersi il potere, ma i tecnici. «In astratto i tecnici sono risorse strumentali a cui il politico - che è per definizione un “incompetente”, uno del popolo - si rivolge per affrontare un determinato problema. Oggi però i tecnocrati non si fidano più dei politici e governano da soli. Lo fanno indirettamente - attraverso la Banca centrale europea o il Fondo monetario internazionale, o peggio ancora attraverso lobby invisibili - o direttamente: Dick Cheney, vicepresidente di George W. Bush, era tra i capi di una multinazionale che prima vendeva le armi e poi bonificava i terreni danneggiati dai bombardamenti».

Ma forse la crisi della democrazia è una fase di crescita inevitabile: in fondo tanti politologi la considerano solo una fase di un ciclo che per Polibio va dalla monarchia al caos (il “potere della plebe”), per Kelsen da guerra a guerra - una fase che il giurista austriaco misurava in circa 60 anni. «E certo», continua Simone, «non aiuta questo quadro storico eccezionalmente avverso. Gli effetti della globalizzazione, che tolgono sempre più potere e sovranità alle amministrazioni dei singoli Stati. La crescente impossibilità di arrivare a una conoscenza dei fatti che già prima era difficile ma oggi è impossibile per la proliferazione di fonti data dalla Rete. E per finire l’immigrazione di massa, che superata una certa soglia di percentuale di immigrati porta la società al collasso. Un etologo, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, ha calcolato il limite sostenibile al 30 per cento. Lui ha studiato i topi, e noi non siamo esattamente uguali ai topi, però...»

Simone ricorda che in molti casi la democrazia è «un modo per raggiungere il potere con il consenso del popolo e senza spargimenti di sangue», e in effetti anche la sua crisi ha un percorso bonario: per la sua dissoluzione non serve la violenza, basta la paura. Lo “Stato di paura” che permette di “tenere buoni” i popoli, denunciato da un maestro del thriller come Michael Crichton nel libro che è stato il suo testamento spirituale: «Tutti gli elementi del quadro storico avverso sono elementi di paura», spiega Simone. «E la Grande Paura spinge a destra. Del resto la democrazia presuppone un mondo tranquillo, pacificato. È stato il primo tipo di governo che non solo lasciava vivere i nemici - cosa che colpiva molto i pensatori classici - ma addirittura permetteva loro di alternarsi al potere. Qualche volta, storicamente, è andata male: Mussolini e Hitler sono arrivati al potere con “quasi libere” elezioni».

E allora, possiamo solo stare a guardare mentre la democrazia preme verso l’antidemocrazia o il caos? Non è possibile ipotizzare dei “lavori di manutenzione” anticrisi? «Dovrebbe pensarci la scuola, che però in Italia è sempre meno in grado di farlo. Non solo per la cronica svalutazione dell’insegnamento dell’educazione civica, ma anche per le pressioni esterne che spingono verso un insegnamento pratico e non critico».

Viene da pensare che tutto si tiene, che un governo che viaggia verso una “democrazia assertiva” ha tutto l’interesse a minare il pensiero critico che dovrebbe essere il frutto di una scuola veramente “Buona”. E anche questo fa sì che, per chiudere come il libro di Simone, proprio in Italia oggi la democrazia appaia così «malconcia, mal coltivata e malprotetta».

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