
Picasso è un mito della modernità, un mito che possiamo leggere per quanto di bello e meno bello ha fatto, e quanto di bello e di brutto hanno fatto i suoi contemporanei e i più tardi eredi o presunti tali. Se questa può sembrare una banalizzazione, in effetti essa non lo è: sta a dimostrarlo lo stesso titolo della mostra “Picasso.Mania”, a cura di Didier Ottinger, Diana Widmaier-Picasso e Émilie Bouvard, al Grand Palais di Parigi (fino al 29 febbraio): raccoglie una cinquantina di opere del maestro e oltre sessanta opere di artisti di ogni parte del mondo che hanno operato non solo nelle arti plastiche, ma in fotografia, cinema, danza, teatro e video.
La mostra è scandita in sezioni tematiche e hanno come baricentro opere celeberrime: dalle “Demoiselles d’Avignon” a “Guernica”, alla splendida serie di acqueforti di Raffaello e la Fornarina fino ai tardi “Moschettieri” che precedono la morte nel 1973. Le prime due tele sono inamovibili, ma sono rappresentate da splendidi studi. I curatori alle opere del maestro alternano monografiche dedicate a artisti contemporanei come David Hockney, Frank Stella, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Miquel Barceló, e di tanti e troppi altri artisti che hanno ruotato come satelliti attorno al sole Picasso. Molti come Icaro si sono bruciati le ali in un volo impossibile. Di qui la mia perplessità su molte scelte: c’è persino Jeff Koons, ora celebrato a Firenze… E artisti che poco o nulla hanno a che fare con il malagueño. La bulimia dei curatori è il tallone d’Achille della mostra e fa rivoltare nella tomba il grande Pablo. Ma in una tavola imbandita con tanti piatti conviene assaggiare i più saporiti che certamente non mancano.
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La mostra s’apre con il superbo “Autoritratto blu” (1901), una tela a suo modo realista degna figlia della grande tradizione dei ritrattisti di Spagna da El Greco a Velázquez, prima cioè che Picasso e Georges Braque iniziassero la loro ricerca verso la nuova frontiera della rivoluzione cubista. La sezione dedicata al cubismo merita una lunga sosta: affascinano nature morte, chitarre e chitarristi, ritratti di uomini, paesaggi di Céret dove andava a villeggiare. Lo spazio polifocale, la scansione dell’oggetto sono una rivoluzione dopo secoli di prospettiva e Rinascimento.
Mi duole davvero che manchino Braque e Juan Gris. Accanto a un capolavoro come l’“Autoritratto blu” c’è un pupazzo di Cattelan (1999) con il maestro a braccia alzate. Che dire? Intensi i ritratti fotografici di Rudolf Stingel e Jean-Olivier Hucleux, come intelligente l’incisione di Richard Hamilton, con il ritratto di Picasso al posto dell’autore de “Las Meninas” e la trasfigurazione cubista dei vari personaggi che sono parte di questa celeberrima tela di Velázquez.
Una sezione è dedicata alle litografie che Picasso disegnò, a partire dal 1959, avendo per soggetto privilegiato la moglie Jacqueline. Il salto alle monografiche di Hockney e Stella ci conduce al nostro tempo con iperrealismo e pop-art. Il simulacro di Picasso compare e scompare, è una sorta di fantasma evocato attorno al tavolo dello spiritismo. Le “Demoiselles d’Avignon” (1907), a cui è dedicata una sezione, sono l’acuto che frantuma i cristalli della tradizione: gli studi di queste ragazze, riprese in un bordello della rua Avignon a Barcellona, ci fanno intendere quanto l’arte africana - assai ben rappresentata con maschere e idoli - abbia significato non solo per lui e Braque, ma per Brancusi, Modigliani e altri. Il tema verrà ripreso agli inizi degli anni Settanta in tele ad olio.
Picasso fu un uomo del suo tempo, un antifranchista e un comunista, che seppe guardare nel cuore straziato della Spagna della guerra civile. “Guernica” è il segno di quanto sia profondo il suo pathos e l’unico riferimento possibile sono i “Disastri della guerra” di Francisco Goya: il grande aragonese fu pittore della corte di Spagna, ma morì a Bordeaux in un volontario esilio. Picasso non fu mai pittore di corte, anche se a Stalin dedicò la sua colomba bianca della pace, e lo zar russo non la meritava. In questo simile a tanti intellettuali d’Europa che si fecero abbindolare dal papa comunista. Negli studi impressionanti per “Guernica” si ritrova tutta la sua “hispanidad”: perché Picasso, che trascorse la maggior parte della sua vita nella patria elettiva di Parigi e sulla Costa Azzurra, rimase sempre profondamente legato alle radici della tradizione artistica del paese nativo.
“La supplicante” (1937) è solo un dettaglio di “Guernica” che grida il dolore e lo strazio di una donna dinanzi alla guerra di ogni tempo. Come dice, fondatamente, il titolo di una sezione della mostra l’enorme tela di Picasso divenne una “icona politica” al tempo della guerra del Vietnam. Qui le litografie di Rudolf Baranik non sono un diversivo, perché in “Stop the war in Vietnam Now” (1967) e nel contemporaneo “Angry Arts against the war in Vietnam” l’artista assume a immagine-simbolo un dettaglio del corpo disteso che è in “Guernica. Emir Kusturica, dedicò un film di 18 minuti in bianco e nero a “Guernica” (1978): un fotogramma mostra una bimba che chiede al padre - dinanzi al grande dipinto - «Papa, qui a peint ça?». Il cineasta ne trasse un arazzo oggi alle Nazioni Unite.
Dal 26 marzo al 5 ottobre del 1968 Picasso, nella sua inesauribile creatività, incide 347 stampe all’acquaforte dedicate a Raffaello e alla Fornarina: sono immagini di pose dell’amata modella mentre il pittore la ritrae, ma sono soprattutto amplessi tra due amanti come troviamo solo nei “Modi” rinascimentali di Marcantonio Raimondi o nelle stampe giapponesi del Kamasutra. La sessualità, il possesso del corpo della donna, le posizioni degli amplessi, i dettagli di vulva e pene, sono temi ricorrenti e quasi ossessivi dell’iconografia picassiana, soprattutto nella più tarda stagione in molte incisioni e disegni. Malgrado ciò Picasso, che pure amò molte donne, ebbe con loro un rapporto da inossidabile macho e le numerose biografie delle sue compagne e mogli ne sono una più che probante testimonianza.
Martin Kippenberger dipinge taluni autoritratti “a mo’ di P.” a testimonianza di dedizione al maestro. Assai più convincente e studiato il rapporto che Jasper Johns ebbe con la sua opera a metà degli anni ottanta: Johns attinge soprattutto alle opere della stagione cubista. Mentre la pur splendida opera di un artista del talento di Robert Rauschenberg fatico a capire che relazione abbia con Pablo.
La pop-art letteralmente fagocita l’eredità di Pablo Picasso che è ormai un artista universalmente celebrato, ma nessuno di costoro ha la capacità di digerire l’arte di ogni tempo come seppe fare il maestro. Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Errò, Andy Warhol vanno al “supermercato Picasso”: non fanno che il loro mestiere di artisti pop, ma il maestro è solo un pretesto di cui non si sente il bisogno. Il cannibalismo di Picasso nasce da un talento strepitoso di cui nel secolo alle nostre spalle e in quello presente è inutile stare a cercare un equivalente. Qui a mio avviso la parte più caduca di una mostra che meritava una selezione molto più stringata e aderente all’opera del maestro che s’intende celebrare.