Ci sono quelle aziendali, scolastiche, religiose, militari, di club o di comunità. Pensate per razionalizzare il momento del pasto, sono diventate luoghi di incontro, socialità, riunioni. E perfino di eleganza (Foto di Massimo Siragusa per l’Espresso)

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Le mense mi hanno sempre fatto pensare (lo so che è strano) alle molecole. Molecole provvisorie che costituiscono un habitat dove lo scopo è quello di legare assieme tanti atomi che svolgono la stessa funzione nella stessa unità di tempo e di luogo. Che è quella di integrarsi in un organismo più grande tramite scambi di materia. Questo succede più o meno in tutto l’universo, in forme diverse. Ma non tutti nell’universo si incontrano e chi lo fa è per collisione casuale o per un motivo preciso.

Nel caso delle mense, il motivo è plateale. Tanti atomi (persone) che si riuniscono in un’unica molecola mangiante e bevente. Molecola che può chiamarsi ditta, refettorio, scuola e che agisce come un tutt’uno nell’unità di tempo convenuta. Per afferrare questo concetto varrebbe forse la ripresa accelerata di chi si reca alla mensa, consuma e se ne va. Danno più l’idea di parti di un unico organismo. Una ripresa vista dall’alto.

[[ge:rep-locali:espresso:286045232]]Allora si vedrebbero gli automatismi, e ciò che fa del concetto di “mensa” qualcosa del tutto peculiare. Si tratta di mangiare in modo ordinato e efficiente, secondo le scansioni del corpo sociale di cui si fa parte. Da quando l’uomo esiste, come ogni altro animale mangia, o almeno scambia elementi con l’ambiente. Il nostro scopo principale, su questa terra, è infatti quello di dare idrogeno ricevendone ossigeno. Questo di base, è ciò che ci lega a tutte le altre forme viventi, dall’ameba alla giraffa. Nel nostro caso, quello umano dunque, lo scambio di base si arricchisce di una quantità di altri elementi incredibilmente varia, e che la mensa razionalizza.

Probabilmente i primi uomini mangiavano in modo molto diverso dal nostro, ma siamo certi, dai ritrovamenti archeologici, che non si sottraevano a forme di rituali che da una parte garantivano la spartizione del cibo, mentre dall’altra favorivano il senso di comunità del gruppo. E l’antichità è piena di mense dove l’elemento ludico (e erotico) si univano a quello del consumo comunitario del cibo. Con l’avvento del Cristianesimo, una mensa divenne una sorta di emblema di tutte le altre. Anche perché era l’ultima. Anche perché aveva un valore simbolico forse mai superato da nessun altro evento. Se ci pensate, l’evento teatrale (lo dico in senso tecnico, senza voler dissacrare alcunché) più rappresentato al mondo, e da millenni, è proprio una mensa. L’ultima cena (quella ritratta centinaia e centinaia di volte negli ultimi millenni e fissata tanto in quella di Leonardo e nella sua replica colorata e acida di Warhol) è la cena aziendale. Forse non era una cena aziendale, anzi non lo era affatto, ma avrebbe dato il là a migliaia di repliche. Nella storia del Cristianesimo, “cenobiti” erano proprio i frati che si riunivano per mangiare, e a tutt’oggi gli ordini religiosi prevedono il momento comune che non a caso è proprio quella della mensa.

Facendo un salto di secoli, con la nascita delle aziende e con la razionalizzazione del momento del cibo, nascono le mense scolastiche e quelle aziendali e insomma le “pause pranzo” che altro non sono che organizzazioni di un tempo complessivo in base alla totalità della produzione. Quindi in qualche modo non costituiscono una pausa ma la necessaria rimessa in sesto del materiale umano ai fini di una maggiore capacità realizzativa. L’esatto contrario del ristorante, dove, lo dice il nome stesso, “ci si ristora” e il perno dell’evento diventa il cibo e il suo consumo sotto il lato che costituisce uno dei pochi piaceri dell’essere umano: ritrovarsi per fare pettegolezzi degustando cibi prelibati e prescelti da una lista si presume ben fornita non solo di pietanze ma di vini. Come contrario del ristorante, la mensa prevede ordine e poco abbandono a quelle liceità che diverrebbero patetiche se non proprio fuori posto. Un allegro “coro” in una mensa aziendale non ci sta. Rare le eccezioni. Un compleanno, magari. Ma veloce, senza disturbare gli altri.

In mensa insomma non ci si deve troppo divertire. Ci si trova lì per produrre, nella mancanza dell’uomo macchina che comunque, per quanto rapido, avrebbe bisogno di un pit-stop energetico. Pure, la mensa è il luogo fuggitivo della chiacchiera, essendo il pettegolezzo, la malignità o la semplice curiosità su cosa fanno gli altri, una delle caratteristiche più proprie e irrinunciabili dell’essere umano. Per questo le mense, pur nel loro tendere al razionalismo dei parallelismi degli spazi e a una certa neutralità di gruppo, rappresentano un’occasione più ghiotta del cibo stesso per lasciare sfogo a se stessi. Cosa si dice di questo, sapete cosa ha fatto quella, la sapete l’ultima su. Oppure semplicemente si sfrutta il tempo in mensa per origliare o dare maggior fiato al proprio ego. Costretti dalla stretta prossemica delle sedie, ci si può scambiare chiacchiere oziose e sfiorare in modo ambiguo livelli di intimità che la normale prassi lavorativa negativa riduce drasticamente o rende quasi clandestini.

Le mense hanno tutte, più o meno, un’impostazione “panottica”: non ci sono luoghi dove “appartarsi ed è giusto così”. Il momento della solitudine, conseguente dopo un certo numero di ore a quello del consumo, è invece costruito in modo tale da fornire il servizio opposto, quell’intimità che la mensa non può che negare. Il lavoratore “normale” (posto che il termine normale” significhi ancora qualcosa, ma il suo uso almeno statistico credo sia tollerabile) fa la sua comparsa nel mondo sociale in mensa e in mensa chiude la sua carriera. Come un orologio implacabile, il suo corpo e la sua forza lavoro lo spingono, reggendo un vassoio di plastica ricoperto da un tovagliolo di carta, alla ricerca di un “posto libero” dove consumare il tempo in cui rendersi consumabili, nella speranza che qualcuno che ci fa piacere ci abbia riservato un posto o cercando di scartare gruppi che si preferisce evitare. Le merendine confezionate, le padellate di riso e pasta condite in vario modo, i piattini avvolti di cellophane con frutta o formaggi e i “formaggini”, tutto ha il sapore (al di là del sapore effettivo o dell’eccellenza più o meno dubbia dei cibi) tutto ha il sapore di un “già pronto” che ebbe il suo apice di consensi (e di consumi) negli anni Settanta, quando “già fatto” era più “moderno”, e c’era chi preferiva il precotto all’appena fatto, la carne o il pesce in scatola a quello fresco, e forchette e coltelli e piatti in plastica a quelli in metallo. È un fascino che resiste del resto anche al di fuori delle mense scolastiche, ossia nei fast-food, tornati in auge - più che per moda - per necessità della crisi economica che ci attanaglia.

Efficienza, velocità, ordine: tutti valori in evidente paradosso con il momento storico che viviamo e allo stesso tempo segnali di resistenza collettiva mentre avanzano quelli individuali. Dal vegano che si porta il cibo da casa al celiaco, ricordando l’antica “schiscetta” del lavoratore milanese che si portava il cibo da casa e che poi lo consumava, magari direttamente in catena di montaggio o sulla scrivania. È una moda che sta tornando in auge per una serie di motivi. Il primo è quello più prevedibile, ma non gufiamo. Può essere anche una scelta di autonomia o di consapevolezza del cibo. L’unica performance quotidiana, oltre a quella del sonno (rigorosamente vietata all’interno del luogo di lavoro) che nessuno può evitare.