Treno della memoria, quelle piccole luci sui binari di Auschwitz

L'ultima tappa del viaggio dell'Espresso con i ragazzi in visita nel luogo simbolo dell'Olocausto. Non solo per ricordare le vittime ma soprattutto per capire i meccanismi della 'fabbrica della morte'

“A scuola studiamo che il campo di sterminio era una fabbrica di morte. Ma non puoi immaginare che cosa vuol dire questa espressione, 'fabbrica', fin quando non sei qui e vedi come funzionava”. Su Auschwitz Birkenau sta scendendo il tramonto. Una luce bellissima, bluastra, illumina il memoriale alle vittime del campo, oltre un milione di persone, e il boschetto di betulle (questo vuol dire, in polacco, il nome del luogo) dove sorgevano le camere a gas che i tedeschi fecero saltare in aria fuggendo dai russi, nel gennaio del 1945. L'ultima luce del giorno filtra tra gli alberi e sulla neve che ricopre il fango, le strutture dei blocchi che i nazisti in fuga non riuscirono a distruggere, i binari che portavano i convogli dei deportati fin dentro il campo, per massimizzare il lavoro di sterminio.

Treno della memoria
I ragazzi, la fabbrica di Schindler e quel quartiere pieno di stelle
31/1/2015
I settecento ragazzi del Treno della Memoria organizzato da Terra del Fuoco, che abbiamo seguito in questo viaggio, sono arrivati alla fine del loro cammino. Da qualche giorno, partendo dai campi di transito italiani, poi a Cracovia e ora qui, scoprono cosa è stata la Shoah, il suo valore storico e la lezione di cittadinanza che ne si può trarne per il futuro. Intirizziti da freddo, in mezzo alla neve, stringono ciascuno nelle mani una fascetta bianca con un nome scritto sopra. Nella prima parte del complesso concentrazionario costruito in questo paesino della Polonia del sud hanno scelto tra le immagini dei deportati , sviluppate da un rullino dell'archivio nazista nascosto e ritrovato in una stufa, il volto di un uomo o di una donna, il suo numero di matricola, il suo nome.

[[ge:rep-locali:espresso:285144482]]Ora, davanti alle pietre del memoriale, lo dicono a voce alta, seguito dalla frase 'Io ti ricordo'. Hanno in mano delle candele rotonde. Spontaneamente, senza che nessuno abbia imposto loro una coreografia, le posano sui binari. Si riuniscono in piccoli capannelli, e lì raccogliamo qualcuna delle loro voci. “So di essere molto emotiva. Ho passato i giorni precedenti a questo viaggio a cercare di costruire degli argini. Ma ora che sono qui mi rendo conto che quello che vedi fa saltare tutti gli argini” dice una ragazza bionda, il cappello di lana calato sul volto. E la sua compagna di scuola: “Vedi queste cose indescrivibili: la stanza dei capelli che tagliavano alle donne. La stanza delle scarpe che toglievano ai bambini, prima di mandarli a morire, quella degli occhiali. Tutto ti parla della spoliazione dell'essere umano, del desiderio di ridurlo al nulla. Ma la cosa che mi ha commosso di più, non so perché, è la stanza delle protesi. L'idea di togliere a un uomo o a una donna già sofferente, che comunque ucciderai, l'unica cosa che forse gli ha regalato un po' di serenità e un po' di autonomia”. Un ragazzo moro, quasi già un uomo, mi dice: “Qualcuno che aveva fatto questo viaggio mi ha detto: 'Ti cambia la vita'. Sembra un'espressione retorica. Però è vero che qualcosa dentro cambia, forse ho bisogno di tempo per capire cosa”.

[[ge:espresso:visioni:cultura:1.197855:article:https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/02/02/news/ecco-perche-abbiamo-scelto-di-lavorare-ad-auschwitz-1.197855]]Al mattino presto, quando Cracovia era immersa nel buio e solo qualcuno spalava la neve davanti ai portoni delle case e dei bar, hanno preso i pullman per raggiungere a O?wi?cim, il nome polacco della località che i nazisti annessero alla Germania e in cui, espropriando le terre dei contadini del luogo, costruirono il più grande dei complessi concentrazionari del Reich. Ad aspettarli hanno trovato le guide autorizzate del museo di Auschwitz che per ore, nel flusso ininterrotto di visitatori che visitano il lager, hanno raccontato come si moriva e come si viveva nel luogo simbolo della 'soluzione finale'.

Hanno visto le immagini scattate dalle guardie del campo e ritrovate nel celebre album di Lili Jacob, una giovane deportata che dopo l'arrivo dei russi scoprì, in un campo tedesco, il 'souvenir' dimenticato da una guardia che era stata prima di stanza ad Auschwitz.

Memoria
Il nazismo? Per spiegarlo ai ragazzi serve il teatro
29/1/2015
Sono entrati nei 'blocchi' dove gli internati dormivano al freddo, ammassati in notti più gelide della giornata sotto zero che loro affrontano ben coperti. Hanno visto il magazzino dove i sonderkommando aprivano le valigie dei nuovi arrivati, dividendo ogni bene diventato proprietà del Reich e preparandolo per la spedizione in Germania. E, nell'ultimo blocco, il più vicino alle camere a gas, hanno sostato davanti a due pareti di immagini.

La procedura del lager imponeva che le foto ritrovate nelle valigie fossero stipate in bagagli già vuoti e poi bruciate nel bosco. Ma una valigia scampò alla procedura, o fu nascosta, e la ritrovarono i russi nel campo. Ora si sa che molte appartenevano agli abitanti di una cittadina in maggioranza di popolazione ebraica non lontano da O?wi?cim. Furono portati tutti insieme nel campo.

[[ge:espresso:visioni:1.198347:article:https://espresso.repubblica.it/visioni/2015/02/06/news/l-istituto-italiano-di-cultura-a-cracovia-e-gli-incontri-sulla-memoria-1.198347]]Di molti di loro non resta nemmeno il nome. Solo gli abbracci tra i fidanzati, i mezzi sorrisi orgogliosi delle madri che accarezzano i figli, le smorfie buffe degli amici durante una gita in campagna, l'aura sfrontata della gioventù delle ragazze in età da marito.

Mentre si torna indietro, camminando nel viale di fango che ogni giorno gli internati percorrevano per andare alle loro baracche e che portava, dietro le betulle, alla morte con il gas, sembra di vederli ancora. Sono ancora tutti lì, tra gli alberi e la neve di Birkenau. E chiedono a questi ragazzi di non essere dimenticati.  

Twitter: LaraCrino

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