Da anni Google pubblica un rapporto per evidenziare le richieste di rimozione di contenuti che vengono avanzate dalla autorità. Per tutelare dei diritti legittimi, ma anche per nascondere il dissenso. E in questa classifica l'Italia è nelle posizioni alte (Lsdi.it)
Ogni giorno in Rete si generano e circolano milioni di informazioni. Dai nostri dati personali, che immettiamo per usare un servizio online, alle opinioni, quelle che ad esempio riversiamo su blog e social network. Informazioni di varia rilevanza e natura che passano attraverso le reti di motori di ricerca, fornitori di Internet, compagnie di telecomunicazione. E sulle quali i governi pretendono di esercitare un controllo sempre maggiore.
Dal 2010 Google pubblica un
rapporto semestrale sulla trasparenza, fornendo “dati che chiariscono l'influenza di leggi e norme sugli utenti di Internet e sul flusso di informazioni online”. Tra i vari temi specifici, il rapporto affronta anche quello delle
“richieste da parte dei governi e dei tribunali di tutto il mondo relative alla consegna dei dati degli utenti”.
I governi in questione sono 67: dagli
Stati Uniti, leader con
oltre 21 mila cittadini oggetto di più di 12 mila richieste, fino alla Namibia, tra i 5 Paesi ad aver inoltrato una sola richiesta per un solo utente, con esito peraltro negativo.
Nei primi sei mesi del 2014, Google ha ricevuto complessivamente
31.3698 istanze di informazioni riguardanti 48.615 utenti, con un tasso medio di accoglimento pari al 65 per cento. L’
Italia, sesta al mondo - sia per numero di richieste, 1.108; sia di utenti, 1.401 - ha avuto riscontri positivi nel 43 per cento dei casi.
Dai dati emerge che il Paese con il
più alto tasso di richieste con esito positivo è la Finlandia: 94 per cento, ma a fronte di sole 17 richieste. Ben più significativi i risultati di Stati Uniti (84 per cento su 12.539 richieste) e Regno Unito (72 per cento su 1.535). Un dato che, se da un lato rappresenterebbe la legittimità delle istanze, dall’altro, per molti, riflette anche il potere persuasivo dei governi di Washington e Londra.
Al contrario, i casi più rilevanti di Paesi che registrano il
tasso minore di richieste con esito positivo sono la Turchia (neanche una richiesta accolta a fronte di 224 inoltrate) e Taiwan (3 per cento su 548); circostanza attribuibile al fatto che i due Paesi non sono esattamente campioni di democrazia, e soprattutto il governo di Ankara è balzato spesso alle cronache per atteggiamenti ostili verso la libertà di espressione, non da ultima quella manifestata in Rete.
L’oblioLe richieste di informazioni sugli utenti non sono l’unica ragione per cui i governi bussano alla porta di Google. Per motivi che vanno dalla diffamazione alla legalità alla sicurezza (pensiamo all'incitamento all'odio o ai contenuti per adulti), quello della
rimozione dei contenuti è un altro ambito particolarmente delicato nel rapporto che regola le due parti. Molto spesso, tuttavia, più che per allineare i contenuti del web alle leggi nazionali, quello della rimozione è uno strumento usato per controllare se non impedire il dissenso. Come esplicita la stessa Big G, “
le richieste dei governi si riferiscono spesso a contenuti politici e critiche allo stato. Nel tentativo di rimuovere i discorsi politici dai nostri servizi, i funzionari
citano leggi su diffamazione, privacy e persino copyright”.
Anche in questo caso l’
Italia si distingue, risultando quarta al mondo per richieste di rimozione di contenuti - nel 98 per cento dei casi per motivi legati proprio alla
diffamazione. I resoconti di Google centrano un aspetto dirimente della situazione italiana, ovvero l’asse che, attraverso il fulcro della diffamazione, lega la politica (e non principi già tutelati come la sicurezza nazionale o la privacy) al delicato tema della rimozione dei contenuti, con tutto ciò che esso comporta, in primis il diritto collettivo alla libertà di espressione e di informazione.
Non è un caso se lo scorso ottobre il Senato italiano ha approvato un
disegno di legge in materia di diffamazione, che in uno dei passaggi più controversi recita: “Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti,
l’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge”.
Secondo Guido Scorza, avvocato ed esperto del diritto delle nuove tecnologie, per la legge così formulata “sarà Google – e, naturalmente, i gestori degli altri motori di ricerca – a decidere se e quali informazioni continueranno ad essere accessibili online e quali scompariranno per sempre, dietro semplice richiesta dell’interessato e senza bisogno che sia un giudice a pronunciarsi”.
Tuttavia, prima che diventi legge, il testo deve essere approvato anche dalla Camera dei Deputati,
dove langue da mesi in attesa di essere discusso (tanto che il Consiglio d’Europa ha recentemente
esortato il Parlamento italiano a
“riprendere il processo di modifica”). C’è da sperare che Montecitorio corregga una legge che di fatto nominerebbe una multinazionale, dagli interessi
altri e legittimamente tali, quale ago della bilancia che regola il diritto alla privacy e quello all’informazione e alla libertà di espressione di un intero Paese - che, incidentalmente, è dai più riconosciuto proprio come culla del diritto.
Non solo in Italia, ma
globalmente, la diffamazione è il principale motivo per cui i governi chiedono a Google la rimozione di contenuti: il 38 per cento dei casi, secondo gli ultimi dati rilasciati. Ma ci sono anche diversi casi legati a volgarità o nudità (in media il 16 per cento, con picchi come la Turchia) o alla privacy e alla sicurezza (11 per cento, dove spicca il Brasile).
La stretta anti-terrorismoA fronte della minaccia dell'Is e della sua campagna di reclutamento-comunicazione via web, molti governi stanno adeguando strumenti e strategie di contrasto, anche attraverso l’
ampliamento dei poteri di ingerenza e indagine in Rete, sia in termini di accesso alle informazioni degli utenti, sia di rimozione e inibizione di contenuti, siti web e profili ritenuti pericolosi. Tra questi il governo inglese, che non ha dato troppo risalto alla comunicazione delle
nuove norme.
Anche
l’Italia ha approvato un pacchetto di “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo”, che prevede “strumenti di contrasto all’utilizzazione della rete internet per fini di proselitismo e agevolazione di gruppi terroristici”, inasprendo le pene se tali reati vengano commessi online (come se fosse più grave che in analogico) e prevedendo “la possibilità per l’Autorità Giudiziaria di ordinare agli internet provider di inibire l’accesso ai siti utilizzati per commettere reati con finalità di terrorismo”.
E intanto, dopo l’espulsione dall’Italia di almeno quattro giovani stranieri accusati di aver espresso opinioni filo-jihadiste sul Web, già
si parla di “sicurezza tra isteria e ragion di Stato”.
*Andrea Fama è contributor di Lsdi - Libertà di Stampa, diritto all'informazione , laboratorio sulla professione giornalistica