Mucche. Pesci, polli, maiali. Prodotti in batteria ?e trasportati per miglia. Fino alle nostre tavole. Ecco le conseguenze del cibo prodotto in maniera intensiva. ?Sulla nostra salute. E quella del pianeta

Un ragazzo esile, poco più che adolescente, si arrampica su un albero. Prende la bottiglia di plastica che tiene legata in vita, e ci intinge dentro un filtro di sigaretta, che poi passa sui rami. Sta impollinando a mano un pero, nella provincia di Sichuan, in Cina. A migliaia di chilometri di distanza, come ogni anno, parte di 40 miliardi di api vengono trasportate su camion in una valle della California, dove faranno lo stesso sui mandorli, per riuscire a ottenere i frutti di cui lo stato è il primo produttore al mondo.

Mandorle a go go; e mucche a go go: 28 mila da macello nella sola Central Valley del Golden State. Tutte ammucchiate per far sì che un hamburger da 2-3 etti – questo il quantitativo folle di carne che ogni membro dei paesi ricchi mangia ogni giorno, in media – costi 2-3 euro.

Alimentazione
Dal pesce ai polli, i numeri dell'allevamento intensivo
19/3/2015
Apparentemente, perché in realtà paghiamo molto più caro, con la scomparsa di interi habitat, la fuga di specie presenti fino dall’alba della terra come le api, la morte di interi golfi, fiumi, praterie, foreste e via catastrofi elencando. Fotografie di un mondo alla rovescia, scattate da un libro-inchiesta che spiega con esempi concreti perché la terra non può più permettersi di andare avanti così, e perché quella del cibo animale a bassissimo costo è solo un’illusione letale.

“Farmageddon” (Nutrimenti, 19 euro, 412 pagine), questo il titolo tanto esplicito quanto sinistro, è stato scritto da Philip Lymbery - presidente di una delle più antiche associazioni ambientaliste britanniche, ora presente in diversi paesi, Italia compresa (http://www.ciwf.it/ ), il “Compassion in World farming” - che mette insieme rapporti scientifici e studi ambientalisti, ma non vuole convincere nessuno a diventare vegetariano né porre questioni di etica comparata. Vuole solo far sapere ciò che i colossi del cibo non tengono troppo a pubblicizzare, per permettere a tutti di fare scelte consapevoli. Vuole accendere una luce su una realtà che, a conti fatti, è del tutto antieconomica. Perché il sistema dei mega allevamenti, e dei giri del mondo multipli che compiono ormai tanto le carni quanto il pesce, costa e consuma più di quanto non renda (le stime variano, ma arrivano fino a un rapporto tra costo finale e costo reale di 1 a 100). E produce proteine peggiori, malattie, cattiva occupazione, inquinamento.

Etica
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19/3/2015
GALLINE ?IN FOTOCOPIA
Un foglio A4. Questo, in media, è quanto ha a disposizione una gallina di allevamento, più o meno in tutto il mondo. Nei capannoni industriali o sotto enormi tendoni, in Cina come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna come a Taiwan. Lo spazio necessario solo a mangiare, il becco tagliato col laser affinché non si ferisca, il pavimento a grata per lasciar cadere gli escrementi. Il suo compito è produrre uova prima possibile o, in alternativa, ingrassare al doppio della velocità naturale (in sette-otto settimane al massimo) fino a non reggersi sulle zampe (tanto non va da nessuna parte), e poi essere macellata, dando all’uomo una carne più grassa e, laddove è consentito (non in Europa), zeppa di antibiotici e farmaci vari. Tutto intorno: puzza insopportabile sparata fuori dai ventilatori, pozze di liquame che nessun riutilizzo riesce a smaltire, sciami di insetti, camion pronti a iniziare il viaggio. La pressione degli animalisti ha ottenuto, in Europa, il divieto delle gabbie più crudeli, ma in realtà non molto è cambiato: ora sono leggermente più grandi, e contengono dei piccoli trespoli dove l’animale può stare. Ma nulla vieta di riunire fino a 50 mila galline in un ambiente unico. E nulla vieta di sperimentare delle manipolazioni genetiche capaci di darci animali senza piume (un fastidio e una parte di lavoro in meno) o così stressati da produrre, grazie alla tempesta ormonale provocata, molte più uova di una gallina rilassata.

Anche chi proprio non ha alcun interesse che il nostro rapporto con gli animali sia decente, non deve dimenticare che è da questi allevamenti, più che dai contadini delle remote province orientali, che vengono fuori virus come quelli della temutissima influenza aviaria.

Il rimedio però c’è, e sta funzionando: la scelta del consumatore, che dovrebbe acquistare solo uova di galline allevate all’aria aperta (non a terra, che significa poco) o, ancora meglio, biologiche, costringendo così i produttori ad adeguarsi. In Italia, per esempio, usano solo uova di galline un po’più felici e sane marchi come Barilla, Coop, Ikea Italia.


PER QUALCHE BISTECCA IN PIÙ
Nessuna valle, neanche la Central Valley della California, può assorbire l’impatto di 28 mila mucche da latte senza risentirne. Un numero così grande di bovini consuma enormi quantità di mangimi sempre più chimici e produce altrettanto enormi quantità di letame, che non serve se non in minima parte. E le mucche ammassate in filari di capannoni che galleggiano nel nulla sono uno spettacolo inquietante. Negli insediamenti visitati da Lymbery, in California come in Gran Bretagna, niente sopravvive. Attorno: immense distese di soia transgenica, per insediare le quali con il massimo rendimento è stato raso al suolo qualunque altro tipo di vegetale, dalle erbe (comprese quelle infestanti, fondamentali per esempio per le farfalle), agli alberi dei limitari dei campi. Dentro, anche qui, puzza, lamenti, rumore di ventilatori, luci artificiali, mungitrici, e veterinari in azione, per somministrare antibiotici contro le mastiti e per forzare al massimo la lattazione in condizioni di “pascolo zero”. Non a caso le mucche da latte industriale vivono circa la metà degli anni di quelle cresciute in fattoria.

Non se la passano meglio i bovini da carne, anch’essi rimpinzati di mangimi a base di cereali (principalmente soia transgenica) affinché crescano tanto e presto, e diano carni che sono molto più ricche di grassi dannosi rispetto a quelle degli animali cresciuti all’aperto mangiando erba, ricca di omega tre. E poi trattati con antibiotici e farmaci, per crescere fino a scoppiare, e a quel punto essere macellati.

Ancora: se non vi interessa il benessere di quelle povere mucche, pensate che smaltire il letame per esempio dei due milioni di capi italiani (oltre 50 quelli europei), non è una faccenda banale. Buona parte finisce in discariche a cielo aperto che inquinano le falde acquifere. Quanto inquinano dipende dalle legislazioni del paese, ma fuori dall’Europa, almeno sulla carta, oltre ai fosfati naturalmente presenti nel letame, ci sono enormi quantità di pesticidi e metalli pesanti come il cadmio assorbiti attraverso i mangimi industriali, ottenuti da piante intrise di insetticidi.

CHE FINE HANNO FATTO ?LE GHIANDE
L’allevamento in batterie chiuse è più crudele per i maiali, forse, che per altri animali, più sedentari. Il maiale è infatti curioso per natura, e ama gironzolare. Ma nella sua vita in gabbia non lo fa neanche una volta. Ingrassa, a volte fino a quando le zampe non reggono il peso, e poi viene macellato. Gli allevamenti più grandi riuniscono decine di migliaia di animali, e sono in crescita ovunque, soprattutto in Cina, paese che ha una vera passione per la carne di suino e che la esporta anche in Giappone.

Scenario analogo a quello degli altri animali anche il caso dei maiali: enormi stabilimenti chiusi – Lymbery racconta spesso di non essere riuscito a vedere neppure un animale in zone dove ve ne erano decine di migliaia -, fetore, liquami tossici, che possono devastare intere aree circostanti, come accaduto in Bretagna, dove gli scarichi hanno ucciso quasi tutte le forme di vita di un largo tratto di costa, e fatto proliferare un’alga tossica (la lattuga di mare) che ha causato la morte di alcune persone e l’intossicazione di molti animali, e dove cozze, ostriche e molte altre specie sono ormai un ricordo lontano. Desolazione, puzza, alghe tossiche, morte. Questo lasciano in eredità ogni giorno parte dei 4 milioni di maiali bretoni, che la regione esporta nell’est Europa e in molte altre zone.

E lo stesso accade in North Carolina, dove un’altra alga tossica, proliferata sempre in seguito all’inquinamento prodotto dagli allevamenti di maiali esportati in tutti gli Stati Uniti (la zona ha la più alta concentrazione di suini degli Stati Uniti), ha distrutto ogni forma di vita nella baia di Chesapeake, un tempo perla turistica, oggi laguna morta e stagnante.

INDOVINA CHI NUOTA
Mangiate meno carne, e preferite il pesce, dicono i nutrizionisti. Non sapendo, od omettendo, da dove vengono ormai, per lo più (non meno di tre su quattro) quei pesci. Trote e salmoni in Europa e Nord America), carpe e tilapie (in Asia), ma anche gamberi e altre specie arrivano da immense vasche che possono contenere fino a 50 mila esemplari, dove la densità è cioè pari a quella che si avrebbe mettendone una trentina di trote o salmoni (in Europa e Nord America) oppure di carpe, o tilapie (in Oriente), in una vasca da bagno. Dove il cibo è farina di altri pesci, e dove gli animali sono quasi sempre feriti, scarnificati, e non di rado imbottiti di antibiotici per difendersi da parassiti come i temutissimi e diffusissimi pidocchi di mare, che ne mangiano le carni fino all’osso.

Alcuni dei siti di produzione più grandi dei pesci che compriamo anche nei nostri supermercati sono nei paesi in via di sviluppo come il Perù. È qui che la coltura intensiva di un tipo di acciuga usata per le farine ha causato un livello di inquinamento talmente intenso da sterminare qualunque forma di vita in un’intera baia, quella di Chimbote.

E se pensate che il Perù è lontano, sappiate che negli allevamenti scozzesi la mortalità dei salmoni raggiunge il 30 per cento, e quelli che sopravvivono trascorrono la vita a lottare disperatamente per avere ossigeno dai bocchettoni delle vasche, e spazio, e cibo. Se poi non ce la fanno, diventano a loro volta alimento per altri animali, acquatici e terrestri.

Al termine della galleria degli orrori da allevamento, resta poca voglia di farsi un hamburger da due soldi, o cercare il salmone più economico nel banco del supermercato. E d’altra parte porre fine a questa carneficina (letteralmente) che devasta la nostra salute e la terra in cui viviamo, comincia dalla nostra disponibilità a spendere qualche cosa in più, e a fare attenzione quando si compra. Ma soprattutto a sostituire le proteine animali quando non servono riducendo drasticamente il consumo di carne, fino a una media di non più di 90 grammi al giorno. E soprattutto abbattendo lo spreco: oggi il mondo produce circa il doppio di quanto consuma, e ciononostante ogni giorno milioni di persone muoiono di fame.

EFFETTO SERRA
Tra le conseguenze più gravi dell’aumento esponenziale della produzione di proteine animali ci sono le emissioni di gas responsabili dell’effetto serra, in primo luogo metano e anidride carbonica. Eppure, il calcolo delle emissioni dei diversi paesi considera solo quelle dovute alla produzione di carne, con evidenti distorsioni. Anche per questo i ricercatori del Dipartimento di Scienze fisiche, della terra e dell’ambiente dell’Università di Siena guidati da Simone Bastianoni hanno proposto un nuovo modello, molto più completo, illustrato su “Environmental Research Letters”.

Spiega Bastianoni: «Ogni paese si deve assumere la responsabilità di tutta la carne che consuma, non solo di quella che produce. Così calcolati, i numeri cambiano molto». Nel suo studio, Bastianoni ha analizzato i dati ufficiali di ben 237 paesi, e scoperto che, nonostante gli accordi internazionali, negli ultimi vent’anni tanto il metano quanto la CO2 sono aumentati del 19 per cento, raggiungendo 36,1 milioni di Mt (l’unità di misura usata per queste misurazioni). Maglia nera ai bovini (26,7 Mt), seguiti dai suini (7,3 Mt) e dal pollame (2,1 Mt).

Il paese peggiore è la Russia: importa molta carne prodotta in buona misura da Argentina e Brasile che, per far fronte alle richieste di Mosca, emettoni circa 4,2 Mt. E anche l’l’Italia importa, nonostante gli allevamenti intensivi della pianura padana: dalla Francia (1,4 Mt), dalla Polonia (0,7 Mt), dalla Germania (0,6 Mt) e dall’Olanda (0,7).

Il fatto è che, in base al Protocollo di Kyoto, i Paesi industrializzati possono vendersi e comprarsi dei diritti di emissione: chi inquina troppo può vendere un po’ del suo inquinamento a chi è più virtuoso. E definire i livelli di inquinamento diventa essenziale: «Ognuno dovrebbe rispondere di ciò che effettivamente consuma sul suo territorio e forse tutti impareremmo a mangiare e in generale a vivere in maniera più responsabile», conclude Bastianoni.