Riletto oggi, alla luce di tutte le polemiche recenti e passate, il libro di Bocca restituisce alcune verità troppo facilmente dimenticate o rimosse. Certo, quello che è successo tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1945 fu una guerra civile. Ma, attenzione, a seguire il racconto dell’autore si evince chiaramente quanto la ragione fosse da una parte e il torto dall’altra (il che non toglie niente alla drammaticità delle scelte individuali). Quando Bocca narra la vita quotidiana dei partigiani, le loro discussioni, gli interrogativi che si pongono, è difficile sfuggire all’impressione che effettivamente si trattava della “meglio gioventù”. Suona strano dirlo, oggi, a settant’anni dalla fine della guerra, ma, per fare un esempio: ci sarà pure una differenza tra chi salvava gli ebrei e chi li denunciava.
Bocca sottolinea quanto la guerra civile fu una guerra di popolo (altro che la presunta indifferenza delle masse). Ne dà esempi concreti. E dice che senza l’appoggio attivo della popolazione i partigiani non sarebbero stati in grado di sopravvivere in montagna, muoversi da un posto all’altro, avere informazioni sul nemico, combattere.

Ma il libro va letto prima di tutto per capire il vissuto dei partigiani; per sapere (una verità spesso dimenticata) quanto la Resistenza fosse nata dall’incontro tra il vecchio antifascismo e quello nuovo, di ragazzi cresciuti sotto il regime e che a un certo momento hanno deciso di dire basta.
Da questo punto di vista, il fatto che l’autore sia anche uno dei protagonisti della storia che racconta, è di grande aiuto. I giovani che vanno in montagna non lo fanno per ideologia, né per un credo politico determinato, ma perché non sono capaci di immaginarsi una vita fatta di umiliazioni e degrado morale (e anche estetico). Dice cose semplici Bocca: ricorda i crimini del fascismo (4.471 condannati dal Tribunale speciale, 15 mila confinati, precisa), il fallimento della monarchia, la sordità delle gerarchie militari di fronte alle richieste degli antifascisti di resistere ai tedeschi; ma anche la diffidenza istintiva di Togliatti, comunista vissuto alla corte di Stalin, nei confronti dei partigiani («I comunisti della Resistenza erano altri, erano Pajetta, Longo e Secchia», annota).
E in questo contesto si capisce quanto l’esperienza delle 15 repubbliche partigiane (la più famosa quella della Val d’Ossola) fosse un laboratorio concreto e per niente utopico di un’altra Italia, possibile. E poi, il titolo è già un programma: un’“Italia partigiana” è esistita davvero.