L’essere umano non è fatto per funzionare alla quota di crociera di un 747. Il nostro corpo inizia a morire, quindi la sfida è: riusciremo a portarvi in cima e poi di nuovo al campo base, prima che succeda?». Così Rob Hall, alpinista neozelandese, parla al gruppo di turisti pronti a scalare la vetta della montagna più alta del mondo in “Everest”, il film di Baltasar Kormákur che aprirà il 2 settembre il festival di Venezia.
Certo, la battuta è una forzatura drammaturgica che dà il senso di cosa voglia dire salire fino a 8848 metri, in quella che, superati gli 8000, viene chiamata “zona della morte”, per le temperature rigidissime e l’estrema carenza di ossigeno. Ma è anche un appiglio per tenere desta l’attenzione dello spettatore su quella che è una vicenda con una fine nota: la pellicola è ispirata alla più celebre tra le tragedie d’alta quota avvenute sulla cima più svettante dell’Himalaya, in scena tra il 10 e l’11 maggio 1996, quando i membri di tre spedizioni tentarono di raggiungere la vetta attraverso il Colle Sud e, sorpresi da una fortissima tempesta di ghiaccio, pagarono alla montagna il prezzo di cinque morti e diversi feriti gravi, mentre sul versante opposto si contavano altri tre alpinisti caduti.
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Dove l’aria È sottile
La disgrazia non è quella col più alto numero di vittime: nel 2014 16 guide nepalesi sono morte sorprese da una valanga abbattutasi sul campo base e il terremoto dello scorso aprile ha causato sul rilievo addirittura 18 morti, tra cui vari sherpa e turisti occidentali. Tuttavia è quella più raccontata in diversi resoconti, opera anzitutto di alcuni protagonisti della stessa. Ad accendere l’attenzione e innescare le polemiche aveva pensato il best seller del 1997 “Aria Sottile”, scritto dal giornalista John Krakauer (già autore di “Into the Wild”), che faceva parte della spedizione di Adventure Consultants, guidata dall’alpinista neozelandese Rob Hall. Nel ricostruire gli eventi Krakauer individuava la causa principale nell’eccessivo numero di scalatori presenti quel giorno, addirittura 35, sul medesimo percorso di ascesa, che aveva causato ritardi sulla tabella di marcia.
Oltre a una spedizione taiwanese, c’erano l’impresa commerciale di Hall e la Mountain Madness dell’americano Scott Fischer, in accesa rivalità tra loro. Inoltre il reporter accusava il comportamento non professionale della guida russa Anatoli Boukreev, che lavorava con Fischer ed era rientrato al campo base prima dei suoi clienti, salvo tornare indietro poi a salvarli quando erano sperduti e semicongelati nella bufera. “Aria sottile” ha reso quegli eventi leggenda e ha provocato l’immediata risposta di Boukreev, con il libro “The Climb”.
Successivamente altri protagonisti hanno pubblicato la propria versione dei fatti: Beck Weathers, sopravvissuto ma a costo di perdere le dita delle mani e il naso, ha scritto “Left for Dead”, Lene Gammelgaard ha pubblicato “Climbing High” e di recente Lou Kasischke ha dato alle stampe “After the Wind”.
Qui ci vuole un islandese
«Su questa vicenda si è scritto molto», spiega il regista di “Everest”, Baltasar Kormákur a “l’Espresso”: «E sono stati girati anche dei documentari. A me interessava trovare la tensione tra le diverse versioni dei fatti e scegliere una strada, non per stabilire la verità, come in un processo, ma per fare emergere l’umanità dei personaggi e per raccontare cosa accade in una situazione del genere. E perché le persone prendono alcune decisioni piuttosto di altre».
Il film era in lavorazione da almeno 12 anni, ed era sfumato l’ultima volta nel 2007. Poi i produttori hanno individuato in Kormákur la persona giusta per avviare il progetto, forse anche perché colpiti dal suo “The Deep”, storia vera di un pescatore islandese sopravvissuto miracolosamente per sei ore nelle acque gelide dopo l’affondamento della sua imbarcazione. «Mi interessa molto il rapporto tra l’uomo, la natura e i fenomeni atmosferici», dice ancora il regista: «Ed è per questo che ho cercato nel film di essere il più fedele possibile alla realtà di una scalata dell’Everest: ho portato il set in Nepal (poco sotto il Campo Base, ndr.), seppure per i pochi giorni concessi lì per le riprese. Poi abbiamo girato sul ghiacciaio della Val Senales, a 3000 metri e 30 gradi sotto zero. Il tempo era bruttissimo e non è stato facile lavorare per gli attori in quelle condizioni».
Anche perché gli interpreti sono tutti star di livello internazionale: Jake Gyllenhaal è Scott Fischer, l’emergente australiano Jason Clarke è Rob Hall, e poi tra gli altri ci sono Josh Brolin (Beck Weathers), Michael Kelly di House of Cards (Krakauer), Sam Worthington (Guy Cotter), Keira Knightley (Jan Hall), Emily Watson (Helen Wilton). Per fortuna non tutti hanno dovuto affrontare il meteo rigido del Sudtirolo (che tra l’altro ha versato 1 milione di dollari di finanziamenti dei 65 stimati di budget), e qualcuno si è potuto godere il sole di Roma, dove è stato ricostruito il Campo Base negli studi di Cinecittà, o un soggiorno a Londra, dove sono state realizzate poche scene negli studi di Pinewood per aggiungere gli effetti speciali al computer. «Ho cercato di girare il più possibile dal vivo, senza ritocchi digitali», spiega il regista: «Perché affrontare le difficoltà di un set reale, oltre a rendere più credibili gli attori, rende più creativi. Come quando una valanga rende inagibile uno dei tuoi set un giorno prima di arrivarci e devi inventarti qualcosa. Talvolta gli attori hanno avuto paura, ma ho cercato di usare tutto, anche le simpatie o antipatie che si formano in un gruppo di persone così ampio, sempre a vantaggio della storia. La sfida ai propri limiti è uno dei temi portanti del film, e in questo senso penso che l’Everest sia la migliore rappresentazione dell’ambizione umana, non solo per chi vuole scalarlo, ma persino per me che ho voluto affrontare l’impresa di raccontare questa storia».
Baltasar Kormákur, 49 anni, islandese, è sbarcato a Hollywood con qualche riuscito film di genere, tra cui “Contraband” e “Cani sciolti”. Oggi apre il festival di Venezia, che negli ultimi anni ha puntato per l’apertura su film spettacolari con taglio d’autore: nel 2013 “Gravity” di Alfonso Cuarón, quest’anno in giuria, ha inaugurato al Lido e poi vinto 7 premi Oscar, e l’anno scorso “Birdman” di Alejandro González Iñárritu, ha portato a casa 4 statuette dopo essere passato in laguna.
Obiettivo statuetta
Difficile prevedere se il miracolo si ripeterà anche per “Everest”, ma la Universal punta forte su questo film che nelle mani di un regista più avvezzo ai meccanismi del cinema industriale sarebbe potuto diventare un racconto schematico sull’eroismo in montagna. «L’eroismo non è una qualità immutabile, ma appare in alcuni esseri umani in taluni momenti, quando si è chiamati a prendere decisioni difficili che possono avere conseguenze sulla vita propria o di altre persone», spiega Kormákur: «Ho fatto un sacco di escursioni sui rilievi islandesi e ho sperimentato come solo quando si trovano in condizioni critiche le persone mostrano la propria vera natura, libera dai condizionamenti culturali e dagli atteggiamenti di facciata. La necessità di sopravvivere fa emergere l’essenza delle persone: alcune sono terrorizzate, altre trovano una forza inaudita».
Anche se basta leggere le cronache di quei giorni per sapere chi nel film soccomberà e chi no, “Everest” arriva con la giusta distanza temporale dagli eventi, tale da permettere a una parte del pubblico di scoprire la sorte dei protagonisti sul grande schermo. A controllare la verosimiglianza della messa in scena sono stati due scalatori esperti, Guy Cotter, che nel 1996 partecipò alle operazioni di salvataggio, e David Breashears, che si trovava sulla montagna quel giorno per girare un documentario. Cotter, che oggi è proprietario di Adventure Consultants, ammette che il turismo intensivo sull’Everest, oltretutto aumentato nonostante la tragedia, è diventato un problema «soprattutto perché ci sono molte società che permettono a chiunque, persino a chi non è preparato a dovere, di tentare la scalata». E Kormákur non rinuncia a denunciare quella che probabilmente fu la causa principale di quella disgraziata salita: «Il film parla anche della commercializzazione della natura e del fatto che l’Everest sia diventato un business. Quando porti troppe persone tutte insieme in un luogo dominato dalle forze della natura, allora può verificarsi una catastrofe».
Cultura
28 agosto, 2015Un kolossal da 65 milioni di dollari. Girato a 30 gradi? sotto zero. La più celebrata tragedia himalayana di tutti ?i tempi apre la Mostra. Con un occhio agli Oscar
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