Saranno esposte dal 2 ottobre a Roma le immagini più significative pubblicate ?da “l’Espresso” negli ultimi 60 anni. ?Una galleria straordinaria tra ?cronaca, guerre, politica e società. E in edicola dal 2 ottobre il primo numero dell'Espresso datato 1955

Dana Stone non sembrava un reporter di prima linea. I grandi occhiali dalla montatura scura e l’aria di chi sta sempre pensando ad altro lo facevano assomigliare a tratti a Woody Allen. Dicono avesse imparato a usare una Nikon solo quando sbarcò a Saigon, nel 1965. Ma in Vietnam è presto diventato un simbolo della volontà di raccontare la storia attraverso le immagini. I suoi scatti mostravano soldati terrorizzati, disperatamente in cerca di un riparo sotto i colpi di nemici invisibili: il volto di un’apocalisse che la propaganda del Pentagono continuava a negare. Nell’aprile 1970 ha guidato una moto fino al confine con la Cambogia, nella terra di nessuno contesa tra ribelli comunisti e combattenti armati dalla Cia, ed è scomparso nel nulla. Si pensa che l’abbiano ucciso i khmer rossi, ma il suo corpo non è stato mai ritrovato. Non aveva ancora compiuto trentadue anni.

[[ge:rep-locali:espresso:285164039]]È molto forte l’emozione nel ritrovare, in una busta polverosa, le sue stampe: quelle che “l’Espresso” acquistò nel 1968, alcune delle quali pubblicate dal nostro settimanale in quell’anno. Una catasta di fascicoli marroncini logorati dagli anni, che tanto tempo dopo sembra quasi un sacrario. E di sicuro è una grandiosa testimonianza della capacità di raccontare la vita, senza compromessi.

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Ma quello di Stone è solo uno dei tanti casi: il racconto che emerge dalla raccolta fotografica dei sessant’anni de “l’Espresso” è impressionante. Migliaia di foto, alcune stampate con cura, altre frettolosamente. Poche perfette, molte portano i segni della lavorazione in tipografia, con le note di chi ne ha deciso il taglio, valorizzando il lavoro dei fotografi o estrapolandone soltanto un dettaglio. Attimi scolpiti nella carta, destinati a rimanere fermi per sempre e a imprimersi nella nostra memoria. E sono decine le icone della fotografia contemporanea che si incontrano sfogliando le pagine. Sguardi diversi sulla realtà dell’Italia e del mondo, sui conflitti e la società, sui drammi e le speranze.

[[ge:espresso:foto:1.230332:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2015/09/18/galleria/l-espresso-del-2-ottobre-1955-1.230332]](Per tutti i lettori dell’Espresso, insieme al numero 40, in uscita il 2 ottobre, ci sarà in omaggio la copia anastatica del primo numero del giornale, quella datata 2 ottobre 1955)

Prendete Silvio Berlusconi ritratto nel 1977 con il revolver sulla scrivania da Alberto Roveri: la carriera del Cavaliere è solo agli inizi, ma la sua posa da signore rinascimentale e l’arma in vista testimoniano già la volontà di un uomo pronto a tutto per realizzare i suoi progetti.

Mentre il tempo si consuma, anche la storia prosegue il suo corso e la fotografia con lei. In un presente sommerso di immagini digitali, toccare e osservare le stampe originali di quei capolavori è un lungo momento di sospensione. Entri nella storia: la tensione della Guerra fredda, le rivoluzioni africane, i cortei del ’68 italiano e del Maggio francese, i vagoni sventrati dell’Italicus e le macerie della stazione di Bologna, fino alla lunga parata di politici che nel bene e nel male hanno deciso i destini dell’Italia, dell’Europa, del mondo. Si immagina l’arrivo di quelle foto in redazione, via telex o per posta, in stagioni quando neppure la fantascienza riusciva a immaginare l’immediatezza di Internet. Viene da pensare alla pellicola inserita nella macchina, a come il fotografo abbia scelto l’obiettivo. Si ripensa a chi, anche a migliaia di chilometri di distanza, ne ha curato la stampa, distillando luce e contrasti. E ancora, le didascalie: precise fin nei dettagli come fossero epigrafi.

Vent’anni fa, quando lavoravo all’agenzia Grazia Neri (la prima tra le più famose sorte in Italia) per me era normale aspettare la consegna di pacchi di stampe e diapositive, provenienti da ogni continente. Era un momento di passione: un tuffo nei fronti di guerra e nei santuari della politica, nelle rivolte popolari e nei palchi delle rockstar. Le studiavo, selezionavo ed editavo, con la curiosità di conoscerne il destino finale: quali sarebbero state preferite dalle redazioni, come le avrebbero impaginate?

[[ge:rep-locali:espresso:285163389]]Poi mi sono ritrovata io a prendere quelle decisioni, in uno di quei giornali dove la fotografia ha una grande importanza, e che rispetta le immagini e gli autori fino a farne un sigillo di qualità. “L’Espresso” non ha mai fatto cronaca immediata, è sempre stato inchiesta e approfondimento per suggerire una riflessione sulla realtà: articoli che si specchiano e dialogano con quelle immagini. Foto che hanno il valore di una meditazione, senza mai limitarsi a essere corredo delle storie scritte.

Per questo il suo archivio è una miniera, un giacimento di maestri: Dana Stone - come s’è detto - ma anche (tra i tanti) Larry Burrows, Nick Ut, Uliano Lucas, Mauro Vallinotto, Massimo Vergari, Gilles Caron, Angelo Palma, Franco Zecchin, Letizia Battaglia. E vecchie agenzie scomparse come Sygma Gamma o altre ancora che sono altari della fotografia come Magnum, Contact Press.

Era un’epoca ancora lontana dal digitale e lo sfoglio ti immerge in una magia diversa. Sono foto vecchie, ingiallite, polverose, spesso fragili. Ma sanno ancora creare stupore. Le storie si intrecciano, si confondono, si ripetono. C’è un bambino, a cavalcioni di un mulo che avanza in un orizzonte arido; sembra un reportage dalla Palestina o dall’Etiopia, ma la didascalia ti spiazza: “campagne calabresi 1956”. Già: era una parte di un racconto per immagini de “l’Espresso” che venne intitolato “L’Africa in Italia”, denunciando l’arretratezza di intere zone del Paese che pure stava lanciandosi nel boom economico.

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Ed ecco la copertina del gennaio 1968 con un soldato americano ferito in Vietnam, appoggiato a un albero: l’elmetto a terra, l’orrore impresso nel volto. Quasi quarant’anni dopo, un altro marine statunitense è stato fissato nella stessa posa in Afghanistan da Tim Hetheringthon: l’elmetto calato a liberare uno sguardo che è un urlo. Lo stesso messaggio affidato all’immagine, colto da fotografi che condividevano rischi e vita della trincea: un lungo percorso ideale che supera il tempo attraverso due immagini.

La differenza è sempre fatta dal modo in cui un fotografo porge lo sguardo a ciò che lo colpisce. E “l’Espresso” ha sempre lasciato che i fotogiornalisti - proprio come i giornalisti delle parole - potessero esprimersi liberamente. Con il loro stile con i propri sguardi e giudizi.

Tutta questa forza è presente in ogni pagina, dal 1955. Il digitale ha sostituito le pellicole, ma i grandi fotografi hanno continuato a raccontare la storia. E noi continuiamo a mostrarne la testimonianza.