Arriva in Italia il 16 settembre il nuovo capolavoro Pixar. Che si annuncia come un altro trionfo agli Oscar. Ma per la prima volta fuori dal ghetto dei cartoon

Sono trascorsi 20 anni esatti da quando la Pixar ha rivoluzionato il cinema di animazione con “Toy Story”, il primo lungometraggio realizzato interamente al computer. Eppure, nonostante i numerosi successi, mai come oggi è così vicina a raggiungere un traguardo senza precedenti: vincere l’Oscar come miglior film, uscendo dal ghetto del premio ai cartoon, grazie a “Inside Out”. Alla notte delle stelle mancano ancora 5 mesi, ma l’ipotesi non è azzardata, a giudicare dall’accoglienza che il film ha ricevuto allo scorso festival di Cannes, dove la stampa abituata a non perdonare nemmeno i mostri sacri (come il fischiatissimo Gus Van Sant), ha tributato al film di Pete Docter e del co-regista Ronnie Del Carmen un interminabile scroscio di applausi e fischi di giubilo, in un’atmosfera da fine seduta di psicoterapia: metà della sala si scioglieva in un pianto, l’altra metà rideva, con le due emozioni in grado di fondersi inaspettatamente l’una nell’altra sul viso degli spettatori.
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Il segreto di questo film, che arriva sugli schermi italiani il 16 settembre, sembra essere nella capacità di affinare al meglio la ventennale ricetta Pixar: dopo aver instillato emozioni in giocattoli (“Toy Story”), pesci (“Alla ricerca di Nemo”), insetti (“A Bug’s Life”) automobili (“Cars”), robot (“Wall-E”) e roditori (“Ratatouille”), alla fine sono diventate esse stesse protagoniste della vicenda. Quando la piccola Riley, che ha sempre portato allegrezza nella vita di mamma e papà, è costretta a trasferirsi coi genitori dal gelo del Minnesota al caldo di San Francisco, paradossalmente diventa meno solare, nel traumatico passaggio dal mondo semplice dell’infanzia a quello tumultuoso dell’adolescenza. E mentre il padre e la madre tentano di raccapezzarsi sui suoi bruschi cambiamenti di umore, nella testa della ragazzina avviene il caos: Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto e Paura, che una volta sembravano affiatati come una squadra vincente, sono spaesati di fronte alle nuove sfide poste dalla realtà. E quando un incidente manda Gioia e Tristezza dalla sala di controllo giù nel luogo remoto del cervello in cui vengono archiviati i ricordi, i loro colleghi sul ponte di comando non sapendo come gestire le due emozioni principali, combinano un guaio dopo l’altro, mettendo a rischio consapevolezze, memorie, affetti e legami costruiti nei primi anni di vita. Così Gioia e Tristezza sono costrette a collaborare per tornare a prendere il controllo.

«Tutto è iniziato vedendo i cambiamenti nell’umore di mia figlia di 11 anni: da spiritosa e chiacchierona è diventata silenziosa e solitaria», spiega Docter a “L’Espresso”. «E questo mi ha fatto ripensare alle difficoltà che io stesso ho affrontato alle scuole medie, quando mi sentivo sempre a disagio. Così sono partito dall’idea di usare la testa di una ragazzina come ambientazione e vedere le emozioni discutere tra loro anche per i dilemmi più semplici: dovrei prendere un altro biscotto dopo che ne ho già mangiati due? Quando ci siamo calati nell’idea di trasformarle in personaggi, abbiamo capito che dovevano essere come individui con una tendenza marcata ad essere gioiosi, disgustati, timorosi e così via».

Nel tentare di elaborare questo spunto in maniera non solo divertente ma pregnante, Docter e il suo team hanno approfondito gli aspetti scientifici sottesi alla storia: «Alcuni scienziati ci hanno detto che non esiste individuo socialmente adattabile ed emotivamente consapevole come una ragazzina tra gli 11 e i 17 anni, quando lascia il nido familiare per esplorare il mondo e si deve relazionare con gli altri, cercando ci capire chi è veramente».

Con la collaborazione di Dacher Keltner, professore di Psicologia a Berkeley, e Paul Ekman, psicologo pioniere nella ricerca sulla relazione tra emozioni ed espressioni facciali, i creativi della Pixar hanno iniziato a immaginare luoghi e personaggi, nel rispetto dell’assunto scientifico secondo cui le emozioni sono la struttura e la sostanza di ogni nostra interazione. Ecco allora nel film comparire gli spazzini della memoria, addetti a rimuovere i ricordi inutili, le scale buie che portano alle paure più recondite, gli amici immaginari, i castelli di carte, le idee astratte, le isole dei tratti caratteriali e persino il mondo onirico che, in un omaggio ad Hollywood, viene rappresentato come Dreamwood, luogo dove i sogni diventano storie da grande schermo. «Abbiamo esplorato clinicamente quante sono le emozioni, per trovare quelle essenziali», aggiunge il produttore, Jonas Rivera, «ma per visualizzare questo universo misterioso ci siamo lasciati ispirare anche dai modi di dire, come “lavaggio del cervello”, “flusso di coscienza”».

Mentre esplora la coscienza e il subconscio di Riley, “Inside Out” diventa lo specchio attraverso cui lo spettatore è in grado di riflettere sulle scelte decisive della propria vita, i fallimenti e i successi, le gioie e i dolori, e riesce così a passare dall’allegria, alla nostalgia, al rimpianto. «In fondo le nostre emozioni definiscono ciò che siamo», spiega Docter. Il film è un invito a non obliterare la memoria del passato, «che ha maggior valore proprio in quest’epoca in cui tutti siamo sempre proiettati verso il futuro senza pensare mai a ciò che ci è accaduto», dice Rivera. Ma anche a rivalutare le emozioni considerate negative, «persino la tristezza, che non è meno importante della gioia, con la sua funzione di farci elaborare i dolori e liberarci dal loro fardello attraverso un bel pianto».

Il successo più che annunciato al botteghino di “Inside Out” (ha già superato i 600 milioni di dollari, che con i precedenti 14 film totalizzano 9,15 miliardi) suggella venti anni in cui la Pixar, con la sua capacità di fare sognare adulti e bambini, è diventata la nuova Disney. Al punto che quest’ultima, messa in crisi, l’ha acquistata nel 2006 per la cifra di 7,4 miliardi e ha messo il fondatore di Pixar, John Lasseter, a supervisionare anche i propri cartoon. E forse è stata la pressione di quell’enorme investimento, con la necessità di passare da un film prodotto ogni due anni ad uno ogni anno, a far puntare di recente su troppi sequel poco creativi e smarrire la via dell’originalità che è il motivo dello straordinario successo di questo studio. «Il segreto alla Pixar è che abbiamo sempre puntato sulle storie e sulla creatività dei registi», spiega Lasseter «e i nostri film nascono da domande che nessun altro si pone: cosa succederebbe se i giocattoli vivessero di vita propria quando non li guardiamo come in “Toy Story”? O se un topo sognasse di diventare uno chef a Parigi come in “Ratatouille”? Così quet’anno per celebrare i nostri 20 anni, oltre ad “Inside Out”, abbiamo preparato un altro film che risponde ad una bizzarra ipotesi scientifica: cosa sarebbe accaduto se gli asteroidi che hanno spazzato via i dinosauri avvessero mancato la Terra?». È “The Good Dinosaur”, in arrivo a novembre.

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