Cultura
11 novembre, 2016In uscita il 14 e il 15 novembre il documentario sul campione svedese. Dai campetti di Malmö alla Juventus, passando per gli esordi in patria e l'esperienza all'Ajax. Con immagini e interviste inedite, il racconto di come l'attuale attaccante del Manchester United sia diventato un'icona dello sport contemporaneo
Ibrahimovic, lo zingaro diventato "leggenda"
Il Malmö FF perde 3-0 contro l'Aik e retrocede nella serie B svedese per la prima volta nel dopoguerra. È il 1999 e Zlatan Ibrahimovi? è alla sesta presenza nella squadra della sua città. Non proprio gli esordi di un predestinato. «Negli spogliatoi ero il meno triste», racconta. Ha solo 18 anni, qualche segno di acne in viso, i colpi di sole in testa, calza già 46. Nonostante l'attaccamento al suo club, non si sente responsabile. Guarda fisso la telecamera che lo segue dovunque, negli spogliatoi, nel pullman, nella sua casa di Rosengård, la periferia da oltre 20 mila abitanti, per lo più immigrati, alle porte di Malmö. Da quelle riprese nasce “Ibrahimovi?: diventare leggenda”, il docufilm di Fredrik e Magnus Gertten in uscita nei cinema italiani il 14 e il 15 novembre (Indyca e Rai Cinema).
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Non abbassa lo sguardo quando i dirigenti lo rimproverano per il suo record di assenze a scuola, né con i compagni più grandi di lui che proprio non lo sopportano. Troppo presuntuoso, si sente già un campione. «Io sono Zlatan – dice –, non resterò in Svezia ancora per molto». Vuole rendere orgoglioso il padre Šefik che a casa, spesso solo e ubriaco dopo il divorzio di oltre quindici anni prima, smorza gli entusiasmi del figlio. «Potevi giocare meglio oggi – gli dice –. Se non arrivi in Europa non sei nessuno».
Dal suo paese va via nel 2001, dopo aver riportato il Malmö nella massima serie segnando 15 gol. Lo compra l'Ajax, che gli affida la maglia numero 9 e spende poco meno di 10 milioni di euro per portarlo ad Amsterdam. L'acquisto più costoso della storia della squadra olandese. Si presenta sorridente, giacca di pelle chiara, maglione rosa, capelli affogati nel gel. I giornalisti iniziano a capire che intervistarlo può essere stimolante, ma anche doloroso, come raramente accade nel mondo del calcio. Il primo anno, però, gioca e segna poco. Il suo ego spigoloso non si addice alla filosofia del club. Gli piace dribblare e irridere gli avversari, li prende a gomitate e colleziona giornate di squalifica. Qualche giornalista vorrebbe rispedirlo in Svezia, «quell'immigrato di seconda classe», quello zingaro di madre croata e padre bosniaco. È isolato nel gruppo di “soldatini” olandesi, gli mancano i palazzoni di Rosengård. Finiti gli allenamenti, si chiude in casa, telefona agli amici e gioca al computer. Il suo migliore amico in squadra, non a caso, è l'egiziano Mido. Altro carattere forte. I due si contendono la maglia di centravanti e nella prima stagione Ibra siede spesso in panchina. Ma l'allenatore Ronald Koeman e Marco Van Basten credono in lui e l'anno successivo i ruoli si invertono. Fino alla partita contro il Psv: Mido non parte titolare e quando entra in campo non passa mai il pallone a Ibrahimovi?. I due litigano sul terreno di gioco e negli spogliatoi, dove l'egiziano lancia un paio di forbici verso il compagno, sfiorandogli la testa.
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Non sarà l'ultimo scontro nella carriera dello svedese. Nell'agosto del 2004, in un'amichevole internazionale contro l'Olanda, si trova di fronte tanti compagni dell'Ajax. C'è anche il capitano Rafael van der Vaart. Zlatan per poco non gli spezza una caviglia. Al rientro ad Amsterdam l'allenatore li chiama a rapporto per discutere dell'accaduto. «Tu non mi piaci – dice Ibra al centrocampista olandese –, non sei degno di essere il capitano. Sii uomo e non parlare alle mie spalle. Se continui a dire che l'ho fatto apposta ti taglio la testa». Nella partita successiva, contro il NAC Breda, fa due gol tra i fischi dei suoi tifosi. Non esulta e lancia sguardi di sfida verso le tribune. Poi, nel secondo tempo, vince un contrasto, manda per terra l'intera difesa avversaria e segna una delle reti più belle del XXI secolo.
Al pubblico dell'Amsterdam Arena non resta che applaudire quel ragazzone arrogante e spocchioso, che usa il narcisismo per difendersi dal mondo. Arriveranno la Juventus, gli altri top club d'Europa, oltre 300 gol e 23 trofei. Ma il film si chiude con lo sbarco a Torino. Era già nata un'icona del calcio moderno.
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Non abbassa lo sguardo quando i dirigenti lo rimproverano per il suo record di assenze a scuola, né con i compagni più grandi di lui che proprio non lo sopportano. Troppo presuntuoso, si sente già un campione. «Io sono Zlatan – dice –, non resterò in Svezia ancora per molto». Vuole rendere orgoglioso il padre Šefik che a casa, spesso solo e ubriaco dopo il divorzio di oltre quindici anni prima, smorza gli entusiasmi del figlio. «Potevi giocare meglio oggi – gli dice –. Se non arrivi in Europa non sei nessuno».
Dal suo paese va via nel 2001, dopo aver riportato il Malmö nella massima serie segnando 15 gol. Lo compra l'Ajax, che gli affida la maglia numero 9 e spende poco meno di 10 milioni di euro per portarlo ad Amsterdam. L'acquisto più costoso della storia della squadra olandese. Si presenta sorridente, giacca di pelle chiara, maglione rosa, capelli affogati nel gel. I giornalisti iniziano a capire che intervistarlo può essere stimolante, ma anche doloroso, come raramente accade nel mondo del calcio. Il primo anno, però, gioca e segna poco. Il suo ego spigoloso non si addice alla filosofia del club. Gli piace dribblare e irridere gli avversari, li prende a gomitate e colleziona giornate di squalifica. Qualche giornalista vorrebbe rispedirlo in Svezia, «quell'immigrato di seconda classe», quello zingaro di madre croata e padre bosniaco. È isolato nel gruppo di “soldatini” olandesi, gli mancano i palazzoni di Rosengård. Finiti gli allenamenti, si chiude in casa, telefona agli amici e gioca al computer. Il suo migliore amico in squadra, non a caso, è l'egiziano Mido. Altro carattere forte. I due si contendono la maglia di centravanti e nella prima stagione Ibra siede spesso in panchina. Ma l'allenatore Ronald Koeman e Marco Van Basten credono in lui e l'anno successivo i ruoli si invertono. Fino alla partita contro il Psv: Mido non parte titolare e quando entra in campo non passa mai il pallone a Ibrahimovi?. I due litigano sul terreno di gioco e negli spogliatoi, dove l'egiziano lancia un paio di forbici verso il compagno, sfiorandogli la testa.
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Non sarà l'ultimo scontro nella carriera dello svedese. Nell'agosto del 2004, in un'amichevole internazionale contro l'Olanda, si trova di fronte tanti compagni dell'Ajax. C'è anche il capitano Rafael van der Vaart. Zlatan per poco non gli spezza una caviglia. Al rientro ad Amsterdam l'allenatore li chiama a rapporto per discutere dell'accaduto. «Tu non mi piaci – dice Ibra al centrocampista olandese –, non sei degno di essere il capitano. Sii uomo e non parlare alle mie spalle. Se continui a dire che l'ho fatto apposta ti taglio la testa». Nella partita successiva, contro il NAC Breda, fa due gol tra i fischi dei suoi tifosi. Non esulta e lancia sguardi di sfida verso le tribune. Poi, nel secondo tempo, vince un contrasto, manda per terra l'intera difesa avversaria e segna una delle reti più belle del XXI secolo.
Al pubblico dell'Amsterdam Arena non resta che applaudire quel ragazzone arrogante e spocchioso, che usa il narcisismo per difendersi dal mondo. Arriveranno la Juventus, gli altri top club d'Europa, oltre 300 gol e 23 trofei. Ma il film si chiude con lo sbarco a Torino. Era già nata un'icona del calcio moderno.
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