Era il dicembre 1976 quando il lungometraggio d'esordio del regista romano, allora 23enne, uscì al cinema. Un amaro presagio di individualismo. Che si è regolarmente avverato. Ecco come e con chi

Un cialtrone opportunista, lo definisce Mario Monicelli. È un buon padre di famiglia, replica Alberto Sordi. Il dibattito tra il grande regista e il grande attore occupa un’intera pagina di un quotidiano, martedì 14 dicembre 1976. “Un borghese piccolo piccolo”, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, è alle ultime fasi di lavorazione: regista e protagonista si dividono sull’interpretazione del personaggio che dà il titolo al film.

Qualche pagina dopo, nello spazio dei cinema romani, c’è la notizia della prima di un lungometraggio d’esordio. La sala d’essai che lo ospita è il Filmstudio di via degli Orti d’Alibert a Trastevere. Il titolo, programmatico, è “Io sono autarchico”. Il regista ventitreenne si chiama Nanni Moretti. Che l’anno seguente si troverà faccia a faccia in tv con Monicelli polemizzando sulla commedia all’italiana. E due anni dopo, nel secondo film, sbotterà all’uscita di un bar con un grido diventato proverbiale: «Rossi e neri sono tutti uguali... Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?».
Cinema
Nanni Moretti e quelle radici nel Super8
25/11/2016

Strana e cupa l’Italia di quel dicembre 1976: sparatorie a Milano, a Roma, le bombe di un’altra strage a Brescia. In prima serata, sul primo canale Rai, va in onda un programma - testualmente - di «evangelizzazione e promozione umana». In libreria “Fratelli d’Italia” di Arbasino e “Porci con le ali” - la frivolezza da un lato, sesso e politica dall’altro. Moretti si era già fatto notare con cortometraggi dissacranti (“Come parli frate?”, una parodia dei Promessi Sposi) e adesso osa anche di più: chiama a raccolta diversi amici, coinvolge suo padre Luigi e un intellettuale spiritoso come Beniamino Placido, fa il verso ad Alberto Moravia. Lo scrittore romano sarà tra i primi recensori, sulle colonne di questo giornale: ascrivendo il giovanissimo Moretti al filone dei “nuovi comici” (vedi riquadro sotto). È la piccola e media borghesia studentesca, intellettuale e paraintellettuale romana, sostiene Moravia, a ridere guardando il film di Moretti. Ma il pubblico si riconosce nella caricatura? Sì, dice Moravia, e d’altra parte i giovani rivoluzionari “autarchici” non possono più prendersi sul serio.
Nanni Moretti in un'immagine recente

Autore, attore, produttore, custode del Super8, che ogni sera, dopo l’ultima proiezione, metteva al sicuro. Autarchico perché estraneo ai generi dominanti (il bersaglio preferito di Moretti resta “Pasqualino Settebellezze” della Wertmüller), estraneo ai cliché della creatività anni Settanta (certo teatro impegnato, sperimentale, “off”, di cui si fa la parodia per tutto il film), estraneo ai cliché della militanza politica: L’Espresso in tasca, le citazioni dal Capitale di Marx («Mi è sembrato un po’ kitsch»).

Rivedere “Io sono un autarchico” quarant’anni dopo è come sorprendere la giovinezza dei padri - i nati negli anni Cinquanta, ansiosi, iper-sentimentali, ironici, ma cresciuti nel mito della collettività, del collettivismo. Sul tema, nel film di Moretti, si insiste parecchio: le «prove di affiatamento del gruppo», l’esperienza di un personaggio in una comune. Nanni-Michele Apicella fa un passo indietro, avanti, o forse di lato: «Non sto capendo niente», dice. «Forse avrò sbagliato ideologia?». Si preoccupa, o finge di preoccuparsi di non essere capace di fare «espressioni dolci», si masturba in una vasca da bagno (autarchia sessuale?), è pieno di idiosincrasie cinematografiche (tanto il cinema impegnato, Gian Maria Volonté, quanto “Amici miei”) e legate al costume (le “vacanze intelligenti” dell’Espresso, i salotti intellettuali romani).
Dal nostro archivio
Quando Alberto Moravia recensì sull'Espresso 'Io sono un autarchico' di Nanni Moretti
25/11/2016

Su un piano di vita pratica, le preoccupazioni non sembrano tanto dissimili da quelle dei venti-trentenni odierni: «Fabio, trovati un impiego statale, para-statale, demandiamo a te la scelta. Guarda che faccia che c’hai!». Borse di studio, supplenze a Fiano Romano, telefonate quasi imperative ai genitori: «Mi lasci il solito assegno mensile da duecentomila? Sì, come sempre... Perché caso mai qualcuno si chiedesse questo come vive, chi lo mantiene, ha una casa eppure non lavora, così abbiamo chiarito». Autarchico emotivo e politico, Moretti mette in campo un’idea di autarchia creativa con cui quarant’anni dopo siamo ancora a fare i conti, a volte in modo perfino drammatico. Al tempo dei freelance, degli sturtupper, delle partite Iva, essere autarchici può essere ancora un’alternativa rivendicata e non una strada a senso unico? Può diventare una questione di stile, somigliare a una visione del mondo?

Uno youtuber è autarchico per definizione. La narrazione di strada alla Pif o alla Zoro esibisce la sua (studiatissima) improvvisazione autarchica. Progetti teatrali come quelli di Opera Gruppo o di Babilonia portano alle estreme conseguenze la povertà scenica di Ascanio Celestini e suoi cugini autarchici come Paolini e Baliani. Di stanza in Umbria, i giovani di Opera Gruppo fanno tutto da soli, perfino le sedie della platea. Eleonora Danco ha fatto il passo dal palco al grande schermo proprio sotto la stella di Moretti, folgorato dal suo “N-Capace”: lunga gestazione, libertà assoluta. Una donna gira per strada in pigiama facendo domande spiazzanti, dal mercato di Testaccio alle spiagge di Terracina. Più che autarchici, anarchici e anonimi sono molti street artist: dal nume tutelare, il più sfuggente Banksy all’italiano Blu. E uno come Francesco Vezzoli? Autarchico di lusso. Solisti del fumetto come Zerocalcare diventano - involontariamente - modelli, ma nella Self Area di un festival come Lucca Comics lo spazio dell’auto-produzione si allarga, con collettivi di autarchici che si spalleggiano. Ancora: giornalisti-blogger che, tra new e gonzo journalism, rivendicano uno spazio alternativo a «giornali per vecchi scritti da vecchi» (Quit The Doner, al secolo Daniele Rielli, ora in libreria niente meno che per Adelphi con “Storie dal mondo nuovo”).

Gli autarchici tagliano fili e ponti, come fa, in ambito poetico, Guido Catalano. Torinese classe 1971, ex frontman di una rockband demenziale, ex correttore di bozze per Einaudi, con l’arrivo del nuovo millennio comincia a scrivere poesie, a pubblicare le prime raccolte (“I cani hanno sempre ragione”; “Sono un poeta, cara”). Ma è solo dopo aver aperto il suo blog, dopo aver dato carne, ossa e soprattutto voce alle sue poesie, nei reading e nelle poetry slam in giro per l’Italia, che ottiene il successo, che riesce a fare del poeta, anche negli anni duemila, una professione. Escono “Motosega”, “Ti amo ma posso spiegarti”, “Piuttosto che morire m’ammazzo”, e Catalano canta al grande pubblico le sue pene d’amore. Capisce qual è il segreto del successo, trova la formula e non la abbandona più: un linguaggio semplice, ripetitivo, ironico, a tratti sgrammaticato, che parla di “amori difficili”, se non impossibili. «Con me le tue parole non van perse, o almeno credo, mi piace di pensarlo», «accontentiamoci, in questo autunnevolissimo pioggerellinissimo mattino, di pensarci», «non schivare i miei baci, ti ricordi i miei baci? Eravamo felici», “mi dicevi spesso: - non essere triste, che cosa assurda, pensavo, dire a uno triste: - non essere triste», e con l’avvento dei social network la sua pagina Facebook diventa il suo nuovo blog, dove posta video in cui recita le sue poesie con l’aspetto un po’ trasandato, barba lunga e accappatoio, come un Grande Lebowski dal cuore spezzato. Neanche lui ha resistito alla tentazione del romanzo, conservando il carattere autarchico dei suoi titoli e delle sue storie, pubblicando con Rizzoli “D’amore si muore ma io no”.

Vicino a Catalano, nel limbo degli amori sofferti, rimpianti, non corrisposti, si trova Giuseppe Peveri, in arte Dente, nato a Fidenza nel 1976, proprio l’anno dell’esordio morettiano. Alto, magro come un chiodo, capelli così lunghi da coprirgli gli occhi e persino le occhiaie, piene di ricordi e di notti insonni, da eroe romantico, Dente addolcisce la realtà mostrandosi fragile, vulnerabile, prendendosi in giro, giocando con le parole e inventando sogni, come un personaggio di McEwan. Solista in un panorama costellato di boy-band, indie della prima ora, nient’altro che una versione moderna dell’autarchico, in alcuni dischi riscrive i proverbi a modo suo perché gli somiglino di più (“Non c’è due senza te”, “L’amore non è bello”), e racconta di cuori gelati da sciogliere, di convivenze ideali, di “rette parallele” destinate a non incontrarsi mai, dei piccoli grandi miracoli della quotidianità: «Ogni tanto ti penso spesso, mi manchi quando sei con me», «chiedo l’abbonamento per il collegamento telepatico, così ti dico tutto e faccio finta di niente», «facciamo centoventi bambini, tutti con dei nomi molto particolari», «se noi fossimo due petali io sarei dopo di te, quando sono m’ama io, sei non m’ama tu, quando sono non m’ama io, sei m’ama tu». Nel suo ultimo album, “Canzoni per metà”, Dente veste i panni del Bill Murray di “Broken flowers”, e scrive venti canzoni senza ritornello dedicate alle ragazze della sua vita, alle sue metà.

La forma breve, un po’ in sospeso come gli amori che racconta, Dente l’aveva già assaggiata un anno fa pubblicando con Bompiani “Favole per bambini molto stanchi”, rivelando il desiderio di tornare al tempo puro e incontaminato dell’infanzia, dove anche innamorarsi sembrava più facile e meno doloroso. «A me piacciono molto quelle persone che riescono a mantenere un lato da bambino anche quando diventano adulte», ha confessato in un’intervista, «e mi domandavo perché si perde la fantasia che hanno i bambini, che ne hanno tantissima, perché si perde lo stupore? Forse perché c’è tanta esperienza e niente più ti stupisce, forse perché quando si diventa adulti si hanno pensieri grossi da affrontare, e quindi non si ha più voglia né tempo di sognare. Riuscire a mantenere alcune cose che i bambini hanno, riuscire a mantenerle per tutta la vita, è molto importante, aiuta a vivere meglio». Nella sua voce e nelle sue parole c’è l’eco di Rodari e dei grandi cantautori italiani, come Tenco, De Gregori e Battisti. Gli autarchici di oggi si portano addosso la traccia di quelli di ieri, come se abitassero il presente con lo sguardo rivolto all’indietro, a quello che è stato, forse per la paura di perdersi. Nell’ultimo videoclip dei Thegiornalisti, gruppo di punta della scena indie romana, Tommaso Paradiso - il leader, seguitissimo sui social, tanto da far nascere parodie come la pagina Tommaso Paradigma - viene ripreso di spalle, mentre gira in Vespa per i quartieri di Roma. Come vedere la serie “Stranger things” e sentirsi rassicurati, perché in tutto quello che vediamo oggi, in fondo, c’è qualcosa che abbiamo già visto.

ha collaborato Giorgio Biferali