Intellettuali e politica, Valeria Parrella: "La mia voce non va in piazza"
L'autrice napoletana interviene nella discussione sull'impegno dei scrittori aperta da Paolo Di Paolo. Ci sono molti modi per dare il proprio contributo. Ma non tutti trovano sui media lo spazio che meriterebbero
Se viviamo è per marciare sulla testa dei re» fa dire Shakespeare a Hotspur nell’“Enrico IV”. È così il Bardo: un intellettuale impegnato, al punto che la sua vis politica, traghettata dentro le opere, sale ancora sui nostri palcoscenici a dirci cosa appartiene all’uomo (quando egli è un Uomo). Tiresia, nell’“Antigone” di Sofocle, mette in guardia Creonte dalla ubris, dalla tracotanza del tiranno di sapere cosa è giusto o meno fare non “per” i cittadini, ma “dei” cittadini, per esempio del loro corpo.
Anche Sofocle era dunque un intellettuale engagé e usava lo stesso sistema di Shakespeare: faceva parlare i personaggi. Torno al 400 avanti Cristo e me ne vado a spasso per la letteratura europea- ma ha davvero un tempo e una latitudine, la letteratura?- per ragionare su quello che Paolo Di Paolo ha sostenuto la settimana scorsa su “l’Espresso”, in un articolo vibrante di passione. Ho compreso che dicesse che, in un’ epoca in cui i governanti mostrano irresponsabilità, l’intellettuale e lo scrittore debbano ingaggiarsi. È povera la stagione della nazione in cui chi ha voce non la usa per impegnarsi su ciò che accade nel mondo. Mi è parso un articolo preciso per ciò che affermava, ma fuorviante per ciò che ometteva.
Procedendo per induzione, da lì venivano fuori dei macrotipi: c’è lo scrittore di primo tipo, quello che ha assunto una voce forte grazie al proprio talento e la utilizza per supportare questioni del mondo esterno, senza includerle nella propria produzione: scrive un appello per, scende in piazza con, va in tv contro (Erri De Luca si diceva, allora io dico Tiziano Scarpa assieme a una dozzina di scrittori del Nordest in Piazza dei Signori a Treviso contro le ordinanze razziste dei sindaci veneti). C’è lo scrittore di secondo tipo: quello che, a volte, poiché una cosa del presente lo indigna particolarmente, lo muove o ne sa di più, ne scrive a parte: fa un reportage su un giornale, scrive un volume in una collana dedicata (Lagioia sul delitto Varani si diceva, allora io dico “Zingari di merda” di Antonio Moresco, Effigie).
Poi c’è lo scrittore di terzo tipo: quello che lascia precipitare il presente nella propria opera (Zerocalcare si diceva, allora io dico Giuseppe Genna). Infine uno scrittore di quarto tipo: quello che scrive così bene che, abbia o meno legami immediati con il presente: un giorno qualunque un lettore qualunque prenderà la sua parola e ne trarrà motivo di lotta per sé e per gli altri (tra i citati da Di Paolo ci si poteva riconoscere Pasolini, i miei esempi sono all’inizio di questo articolo). Però l’esperienza umana è una soltanto, non siamo compartimenti stagni ma persone, e perfino io non sono così sciroccata da pensare che gli intellettuali possano essere categorizzati come periodi ipotetici: e quindi le idee circolano, i flussi di pensiero e i campi semantici che li abitano o forse li regolano, gli interessi e gli amori: si mescolano, o meglio si dice in napoletano “si imbrogliano”. Massimiliano Virgilio è più ingaggiato quando scrive “Porno ogni giorno” (Laterza), per parlare del degrado umano che si consuma alle periferie delle nostre città, o quando va nel penitenziario minorile di Nisida a fare laboratori? Quando scrive un reportage da Scampia su “il Venerdì di Repubblica”, o quando organizza da volontario l’unica festa del libro di Napoli o quando in “Arredo casa e poi mi impicco” (Rizzoli) racconta il baratro esistenziale di un trentenne che è tutti i trentenni?
Voglio dire che non credo che il mondo delle lettere si possa spartire tra uno scrittore che se ne frega di quello che accade fuori e si ripara sicuro tra le sue carte, e un altro che si stende sui binari assieme ai disoccupati. Soprattutto perché dietro le proprie carte non si è mai al sicuro. Uno scrittore mentre scrive frigge, e quando esce fuori con un articolo o un libro: rischia. Dal disinteresse al linciaggio. Se non scrive libri pensando alle fette di mercato, alle tasche degli adolescenti, se non ammicca al lettore, se non pensa che da quel libro ci si potrà cavare un film, cioè se è onesto intellettualmente, lo scrittore rischia, e dico: rischia ogni cosa perché dopo, dopo quel libro, dopo tre giorni da quell’articolo non ha più nulla. Diventa quella parola scritta che se ne è andata. Paolo Di Paolo lo sa, che c’è più amore di quello che dichiarava lui nell’articolo della scorsa settimana (è proprio questa la bellezza di quell’articolo: che egli stesso affermando che serve l’ingaggio si ingaggia; annichilendosi nella prima plurale dei “cantastorie”, si chiama all’azione).
Erri De Luca e Michela Murgia, portati a giusto esempio come impegnati, hanno una voce calda ed esatta, e hanno anche una voce forte. Avere una voce forte significa potersi far sentire. Ma questo ultimo aspetto non dipende solo da loro: il megafono è un concertato tra tre agenti: il sé, il pubblico ( utilizzo il termine nell’accezione latina, «che appartiene a tutto il popolo») e il tramite tra i due: i media.
Se i media fanno da cassa di risonanza per le battutine liquidatorie del ministro Boschi ci vuole una voce enorme, come quella di Saviano, per rispondere confidando in eguale risonanza. Gli esempi che qui riprendo da Paolo Di Paolo sono quelli di tre scrittori che l’attenzione se la sono conquistata scrivendo, e va a loro onore, ma non può andare a disdoro degli altri il non riuscire a ottenere la stessa visibilità.
Quando Loredana Lipperini, Ermanno Rea e Franco Arminio si candidarono nelle liste di L’altra Europa con Tsipras (non male come impegno anti-renziano), dai palchi dei comizi dicevano della questione meridionale, dei paesaggi offesi e vilipesi, del corpo delle donne. Bisognava ascoltarli. Ma chi ha potuto? Sono bastati gli accorati e pensati richiami di Aldo Masullo e di Maurizio Braucci ad arginare il craxiano appello di Renzi al disingaggio referendario? No. Serviva qualcuno che desse loro uguale spazio. Qualche giorno fa Valerio Magrelli sulle pagine romane de “La Repubblica” ha scritto un pezzo sull’inclusione scolastica. Parlava del presente e non lo faceva in versi, ma in quanti l’hanno letto?
I Wu Ming fanno caso a sé proprio per questo e per questo anche vanno ricordati: hanno scelto di non utilizzare parte dei media, di non apparire in tv, e manco in occasioni pubbliche ufficiali, di “apparato”. Fa parte del loro essere impegnati, è proprio dal loro impegno civile che nasce questa forma di protesta: che io credo racconti quanto raramente ci si possa fidare di ciò che è eclatante. Cosa è un gesto forte? Quale quello a cui dare udienza? Vogliono, le televisioni, parlare per tre giorni de “I piccoli maestri” e di tutti gli intellettuali che vi prendono parte (piccoli maestri.wordpress.com)? La stampa vuole fare a gara a chi lancia prima l’itinerario 2016 di “Repubblica nomade” (repubblicanomade.org)? Piuttosto mi pare che ai media interessi l’episodio eccellente, e diano pochissimo credito, seguito e spazio a chi costruisce con pazienza nel tempo.
Se non hai una voce amplificata te ne resta una melismatica: quella della letteratura, che è una voce necessariamente lenta. La letteratura non crea instant book , abbisogna di tempo, e quel tempo può durare pure vent’anni, pure cento. Magari ne duri cento, cinquecento, mille: che qualcuno torni a essere “cantastorie” come Sofocle, che si possa venir citati come Harry Percy di Northumberland nell’“Enrico IV”.