Il Nobel è artista, attivista e provocatore. Come nel caso Boschi. Ma in coerenza con il suo passato: quello di un intellettuale che ha sempre voluto attorno un gruppo. Al contrario di Pasolini

Nella pagina di Wikipedia a lui dedicata Dario Fo è definito: “drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo e attivista italiano”. In questa sequenza sono comprese quasi tutte le varie facce dell’artista, cui la cultura italiana deve molto da tanti punti di vista. Non è solo per il Nobel assegnatogli nel 1997 che bisogna essere grati a Fo, per la sua attività di drammaturgo e scrittore, e anche per le altre innumerevoli cose che ha fatto nell’arco della sua lunga vita. A marzo l’autore-attore di “Mistero buffo” ha compiuto novant’anni. La sua ultima uscita è quella di mettere all’asta un suo quadro per finanziare il Movimento 5 Stelle. Si tratta di un dipinto che prende spunto dal discusso disegno che Riccardo Mannelli ha dedicato alla ministra Elena Boschi scosciata; l’opera pittorica di Fo verrà battuta alla manifestazione nazionale grillina a settembre a Palermo. Un dipinto non proprio bellissimo, dal tratto picassiano e dalla simbologia non molto chiara: la doppia figura rappresenta la modella e il pittore-satiro, o più probabilmente esprime la doppia identità della donna-ministra, ritratta mentre accavalla le gambe.

 

Fo pittore non si discute, come quasi nulla della sua opera. Si tratta di un monumento nazionale, non solo della sinistra, ma dell’intero Paese, anche se obtorto collo. Alla fine in lui ci si identifica, con la sua identità complessa che l’ha portato da giovane soldato della fascistissima Repubblica di Salò alla militanza nell’estrema sinistra negli anni Settanta, dopo una lunga e importante attività di commediografo antiborghese, per poi ritrovarlo, dai suoi ottanta in poi, schierato a fianco del movimento di Beppe Grillo.
 

 

Tra le definizioni che ne dà Wikipedia quella di “attivista politico” è davvero perfetta; marca, non solo quest’ultima stagione della sua presenza pubblica, ma anche l’intera sua attività. Possiamo considerare Dario Fo un militante politico? In una certa misura sì, poiché ha preso parte a manifestazioni, ha firmato appelli  e soprattutto ha intessuto la sua opera di autore e commediografo di temi politici. Difficile pensare Fo senza questo aspetto; forse non è neppure giusto. Si tratta infatti di una vena che alimenta il suo lavoro artistico. Ma davanti a un intellettuale - perché Fo è anche questo - viene da chiedersi: che tipo d’intellettuale è? L’Italia, l’Europa in generale, ha avuto negli ultimi settant’anni una serie di esempi eccellenti d’intellettuali-scrittori, e d’intellettuali-artisti. Da Picasso che dipinge Guernica, a Jean Paul Sartre che scende in campo durante il Sessantotto a fianco d egli studenti, per non parlare di autori più vicini a noi come Sciascia con il suo “Contesto”, romanzo con cui trasforma in racconto il “compromesso storico” tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, con L’affaire Moro e persino con la polemica contro i “professionisti dell’antimafia”; o ancora Pier Paolo Pasolini, che con i suoi “Scritti corsari” denuncia la mutazione antropologica degli italiani e dell’Italia intera, il Paese che diventa tutt’uno con il Nuovo Fascismo dei Consumi.
 

 

Che differenza c’è tra questi intellettuali-scrittori e il commediografo-attore-pittore Dario Fo? La voce di Wikipedia ripercorre l’intera carriera dell’artista di Sangiano, da Soccorso Rosso al movimento di Grillo, non senza dimenticare il suo inizio come milite repubblichino, a lungo rimosso. Il suo attivismo politico appare sempre segnato da una caratteristica: il populismo. Anche quando sposa cause minoritarie, o presunte tali, quando sembra opporsi al Potere, c’è sempre nel suo stile d’attivista politico un medesimo aspetto: il popolo come riferimento più o meno ideale.

 

Fo appartiene a una parte, che aspira a essere maggioranza. Pur nelle venature utopiche del suo lavoro, emerge la vocazione a essere compreso in un’entità sociale e politica più ampia. Senza la sponda dei movimenti dell’estrema sinistra, ieri, e dei 5 stelle, oggi, Fo non sarebbe l’attivista che scrive commedie, gira film o disegna ministre. Fa parte di un “gruppo”, e a questo si rivolge come se davvero si trattasse del popolo intero. «Cosa aspettate a batterci le mani / a metter le bandiere sul balcone», recita una sua famosa canzone-sigla del 1958, versi emblematici”. La differenza con gli intellettuali-artisti del passato sta tutta qui: Fo non è mai solo. Il dipinto messo all’asta, quasi una boutade, manifesta questa  sua volontà d’appartenenza. Sartre che scende in strada con gli studenti e parteggia per i giovani maoisti francesi, o si reca in Germania per esprimere il suo dubbio circa il suicidio dei terroristi della Baader-Meinhof, è un uomo solo. Così Sciascia, con il suo orgoglio di siciliano controcorrente, per non parlare di Pasolini, uomo solo per antonomasia, controcorrente prima di tutto come omosessuale, che non s’identifica neppure con quella che poi verrà chiamata la causa gay: mai parte di un partito o una organizzazione, neppure del Pci a per cui pure dichiara di votare. Di lui si ricorda la firma data come direttore responsabile al giornale di “Lotta continua”, sostegno a quei giovani rivoluzionari contro cui scriveva sulle pagine de il “Corriere della sera” accusandoli di essere estremisti a causa della nevrosi prodotta dalla liberazione sessuale. Fo non è mai solo. I suoi gesti anticonformisti non l’hanno isolato e reso sgradito a tutti. Non ha mai consumato la sua provocazione in perfetta solitudine, com’è probabilmente richiesto agli intellettuali che non hanno né partito né bandiera, nessuna ideologia cui riferirsi, per essere contestatori, provocatori, semplici bastian contrari o anticonformisti.  Tutte le vicende dell’ultimo decennio a partire dalle liste a suo nome presentate nelle elezioni di Milano, il sostegno a Grillo, le dichiarazioni e le azioni d’attivista politico raccontano la volontà di una lotta mai solitaria, mai individuale, mai davvero controcorrente.

 

C’è poi un altro aspetto non secondario, legato al suo talento. In Fo prevale la convinzione che, novello Re Mida, tutto quello che tocca si trasformi in oro. Non è così. Il talento non è mai sufficiente a giustificare le prese di posizione dell’attivista politico. Sartre poteva aver torto, Pasolini pure. Questo è il rischio che corrono gli intellettuali. E che spesso pagano caramente. L’attivista Dario Fo è convinto del potere suo tocco magico, e questo si mescola, più o meno bene, con la sua opera, o almeno con quella che ha realizzato negli ultimi trent’anni. Talento e populismo sono, a ben vedere, le sue fonti d’aspirazione, così che gli accade a volte di confonderle tra loro. Un peccato veniale probabilmente. Come il quadro della Boschi che ci auguriamo trovi presto un acquirente tra i 5 stelle.