In politica tutto sembra giocarsi sull’alternativa uniti o divisi: ma è un errore. Potenzialmente pericoloso
Ogni tanto il linguaggio della politica promuove dei termini, in genere bruttini, che diventano di uso comune. Ha cominciato “divisivo”, quasi un neologismo, che è la parola coniata per caratterizzare coloro che avrebbero dato luogo alla tormentata scissione di una parte del partito democratico. Poi è arrivato il termine “federativo” che indica l’atteggiamento di quanti sono adesso molto preoccupati perché, in considerazione della nuova legge elettorale, si possa evitare una situazione di stallo all’indomani delle politiche della prossima primavera, in modo da garantire una qualche governabilità del nostro Paese. Molti si danno da fare, ma il federativo per eccellenza sembra finora incarnarsi nel resuscitato Berlusconi. Anche lo stesso Matteo Renzi si sta ingaggiando in questa attitudine non tanto consona al suo carattere, e così la scena si è complicata con la riesumazione di un altro termine di cui ci eravamo dimenticati, ovvero “i pontieri”.
Questi pontieri sarebbero al lavoro per tentare, se non di ricucire, almeno di limitare i danni elettorali che deriverebbero dallo strappo a sinistra. C’è da dubitare che l’indole precipua dell’attuale Pd sia propriamente quella di federare: è più verosimile che qui non emerga tanto un’idea di democrazia intesa come pluralità di posizioni, quanto l’esigenza fattuale di correre ai ripari.
Tutti ricordiamo il famoso “patto del Nazareno”, che nasceva come un accordo segreto e non esplicito, dunque la sensazione diffusa è che il ponte a sinistra (che, tra l’altro, non produrrebbe i numeri necessari per governare) sia una sorta di offa poco credibile, mentre più credibile sarebbe ancora la carta Berlusconi, poco presentabile e perciò tenuta sottobanco.
Se tale è lo scenario immaginabile a tutt’oggi, o almeno uno scenario abbastanza verosimile rispetto ad altri decisamente più azzardati per contrastare il pericolo di un governo di destra (come potrebbero apparire le ipotesi di alleanze con i Cinquestelle), al fondo delle varie alchimie politiche sembra collocarsi una questione di tipo generale che si esprime brevemente in un “divisi o uniti”. Non è ozioso - credo - soffermarsi su questo retroterra di carattere più concettuale e considerare se si tratti necessariamente di un’alternativa secca, da cui non si scappa, o se invece si possa ragionare su qualcosa di più dialettico e meno schematico. Se si riesca a trasformare quella “o” in una “e”, cioè in una forma di composizione non solo artificiale e opportunistica, tra l’unire e il dividere.
Pare molto difficile, ma se dichiarassimo al contrario che una simile congiunzione è ormai fuori gioco, e quindi irrealizzabile, dovremmo ammettere nientemeno che la bancarotta dell’idea di democrazia, la quale idea si fonda proprio sulla pluralità delle posizioni messe in campo. Spesso si ricorre a espressioni latine per rendere più icastico il discorso politico. Penso al motto “dívide et ímpera” (metto gli accenti per impedire gli usuali strafalcioni), un’antica “verità” che abbiamo in testa e con la quale archiviamo troppo in fretta il valore delle divisioni confermando che il potere si impone attraverso un atto di unificazione che le utilizza per schiacciarle. Il motto sottintende che il comando è la cosa principale e che per ottenerla occorre che gli avversari non siano un blocco ma possano essere smembrati, appunto divisi, e così indeboliti venire sconfitti.
Bene, però la politica non è solo un addestramento al comando o la ricerca di strategie “militari” per prevalere. Il motto appena ricordato presuppone infatti una guerra tra amici e nemici: uniti si vince la guerra, se ci lasciamo dividere la perderemo. Se questo fosse l’unico fondo della questione, non ci sarebbe niente da aggiungere, salvo che la democrazia non può essere identificata con un simile scenario di guerra. Se ciò accadesse e quando ciò è accaduto o accade, la democrazia diventerebbe a mio parere qualcosa di vuoto. L’unità alla quale la democrazia rimanda in maniera irrinunciabile non si condensa solo nel potere di un leader forte, bensì si articola proprio nella diversificazione dei soggetti che la costituiscono, il che modifica decisamente il senso che diamo a termini come “uniti” e “divisi”. Non solo non li contrappone, ma ha come compito fondamentale quello di farli stare assieme.
Dovrà impegnarsi a far sì che l’uno non cancelli l’altro, perché se ciò si verificasse scomparirebbe la democrazia stessa. Tornando al nostro angusto scenario, si ha l’impressione che né i divisivi né i federativi diano molta importanza al tratto essenziale della democrazia, a questa “promessa” che ogni democrazia dovrebbe cercare di mantenere. Direi che la prova di tale fragilità sta nella scelta stessa di questi termini che - per dir così - smascherano da soli il fatto di essere provvisori e psicologistici. Esaminiamoli.
Il “divisivo” sembra proprio identificarsi con una tipologia caratteriale: divisivo è colui che vuole dividere per esistere politicamente dandosi un’identità, piccola a piacere ma riconoscibile. È una storia vecchia che la vicenda complessiva della sinistra italiana conosce troppo bene: essa ha prodotto in passato molti guai e nessun effettivo successo, altro che Orazi e Curiazi! Il divisivo è uno (un gruppo) che si separa dagli altri (un insieme) non tanto per vincere ma soprattutto per dichiarare “io esisto”. In realtà produce gruppetti o “cespugli”, magari animati da molte virtù ma con il vizio di prestare il fianco a uno smembramento perdente. Nel divisivo, in conclusione, è difficile vedere la sopravvivenza del tratto essenziale della democrazia, che consiste proprio nella convivenza delle diversità e dunque di soggetti anche molto differenti tra loro.
Quanto al
, già la parola stessa fa intendere che nel suo orizzonte politico non ha spazio alcuna idea consistente di federazione democratica tra diversi. Si coglie piuttosto una forma di furbizia opportuna che ha poco o nulla a che fare con un’immagine di democrazia o società a venire, e che al contrario è tutta piegata nella direzione di una propaganda che riesca a condurre efficacemente a un governo sugli altri. Questa scaltrezza poco virtuosa del federativo, momentanea e interessata all’incasso politico, lo rende inviso ai “divisivi” che risultano in questo modo più seri e magari ci appaiono più simpatici nella loro inefficacia. Assistiamo dunque, noi elettori, a uno spettacolo alquanto sconfortante che facciamo fatica ad apprezzare, non solo perché non vorremmo che la politica si riducesse a una tenzone tra “realismi” poco promettenti, cioè a una mera questione di tattiche di potere, ma soprattutto perché non riusciamo più a vedervi una qualche sopravvivenza della democrazia, posto che vogliamo continuare a pensare che essa mette strutturalmente in gioco l’unità e la diversità dei cittadini e la loro necessaria, per quanto aporetica, composizione. Rispetto a questa unità/diversità i divisivi e i federativi risultano una semplice caricatura.