Il segno della nostra epoca è trascendere i confini: geografici, del tempo, delle identità. La vera appartenenza si trova nell’idioma

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Cominciamo da “La montagna magica” di Thomas Mann, dalla disputa, lunga alcune centinaia di pagine, tra Settembrini e Naphta. Settembrini è illuminista convinto che l’inesorabile avanzamento del progresso finirà per emancipare l’umanità da ogni pregiudizio e miseria. Da bravo mazziniano sostiene che la libertà e la democrazia sono legate all’idea della patria e della nazione: universalismo come fratellanza dei popoli. Naphta invece è gesuita, in origine ebreo galiziano fuggito dai pogrom, “campione dell’universalismo cristiano” (parole di Mann). Per Naphta “l’amore di patria era una peste e la più sicura morte dell’amore cristiano”. Tre generazioni di critici ed esegeti delle vicende ambientate nel sanatorio di Berghof a Davos avevano messo al centro del loro interesse (oltre alla parabola del protagonista Hans Castorp) proprio questa disputa tra l’appartenenza al suolo (il patriottismo in versione liberale parla del suolo non del sangue) e il principio cosmopolita di forti connotati metafisici.

Soffermiamoci sul capolavoro di Mann; la letteratura spesso ci svela il mondo meglio dei saggi storici e filosofici. Ecco, rileggendo oggi “La montagna magica”, quella discussione sembra poco rilevante. La nostra attrazione, all’epoca del dopo ideologie, si concentra invece sulla questione del tempo: incerto il suo scorrere e la sua misura, incerti quindi i confini della nostra identità e la percezione dei nostri corpi. Soprattutto restiamo affascinati da Madame Chauchat. Clawdia Chauchat è una donna russa: libera nei costumi e nei modi di fare. Hans Castorp la desidera, ne è ossessionato. Ma attenzione, Madame Chauchat, dai fianchi stretti e seno piccolo, è un essere umano androgino. E del resto, nei sogni di Castorp il suo corpo si confonde con quello di un ragazzo, Pribislav, oggetto della bramosia adolescenziale. Questo raccontano oggi gli interpreti dell’opera di Mann. Infine, la conversazione amorosa tra Castorp e Clawdia avviene in francese e Mann, la scrive tutta in quell’idioma. La lingua diventa un terreno che prescinde dal suolo, le radici e l’attaccamento alla materialità e porta invece nel regno del desiderio e della libera scelta. Così come l’androginia è sinonimo di libertà.

Alla questione della lingua ci torneremo. Intanto, un secondo esempio, al confine tra letteratura e cinema. Parliamo dell’immaginario e delle scelte. In un libretto, intitolato “Brigitte Bardot”, scritto nel 1959, pubblicato in Italia nel 1960 da Lerici editore, Simone de Beauvoir scrive dell’allora giovane diva del cinema: «Visto dalle spalle, il suo corpo di ballerina, minuto, muscoloso, è pressoché androgino», il contrario di Marilyn Monroe e di Lollobrigida. La filosofa, femminista ed esistenzialista, spiega quanto Brigitte Bardot rappresenti l’immagine della donna moderna, libera, autentica grazie alla sua ambivalenza. L’ambivalenza come segno di libertà e come l’affermazione (esistenzialista, appunto): si è quello che si sceglie di essere. E l’ultimissimo esempio dell’ambivalenza come modernissimo sovvertimento delle categorie consolidate e consolatorie: la figura di Silvia Calderoni, la performer del gruppo teatrale Motus. In “Mdlsx” Calderoni esibisce in modo esplicito la propria androginia. Lo spettacolo in cui si dice: l’identità e l’appartenenza, ogni appartenenza, sono solo una scelta, è un successo di critica e pubblico su scala mondiale.

Che c’entra tutto questo con i concetti come Patria e Matria, di cui ha parlato Michela Murgia su questo settimanale? C’entra moltissimo, perché il segno della nostra epoca è trascendere i confini, alla maniera radicale; dell’identità di genere; del tempo (basti pensare alle scoperte dell’astrofisica); dei ruoli assegnatici per nascita (i giovani borghesi stanno diventando precari e nomadi); della lingua infine. Ci ricordiamo la disputa ottocentesca tra Manzoni che voleva l’imposizione dell’italiano e Isaia Graziadio Ascoli che auspicava la convivenza del dialetto, oggi diremmo idioma materno e l’italiano, oggi lo definiremmo lingua paterna perché della Legge? Ebbene, quel dilemma, nel 2017, non ha senso. Nessuno si scandalizza per androginismo linguistico, per l’uso a seconda della situazione, della parlata materna o paterna. Di più: ci sono scrittori nati altrove e cresciuti in altre lingue che hanno deciso di scrivere in italiano. Qual è la loro patria? Il suolo natio? Il Paese d’adozione? Forse, la risposta giusta è la Patria è la lingua. Ma la lingua non è solo Legge, Nome, Autorità, la lingua è anche tenerezza e accoglienza. La lingua è padre ma anche madre, Patria ma anche Matria. E forse sono ipotizzabili, all’epoca della flessibilità, più lingue e più patrie, ossia un androginismo diffuso e esteso.

Per concludere. Nell’iconografia di stampo ottocentesco la Patria è rappresentata come il corpo di donna che lo straniero vuole violare, difesa da maschio soldato. Il maschio è padrone a casa propria e quindi proprietario del corpo della sua donna. Ma oggi soldati sono anche donne. A pensarci bene, la donna soldato ha le sembianze di un androgino; e rende la Patria un po’ Matria. Perfino agli occhi di chi è pacifista e contrario ai fucili.