Il fenomeno dell'immigrazione ci pone di fronte a un cambiamento epocale. E per capirlo appieno dobbiamo rovesciare il nostro sguardo e cambiare drasticamente il modo in cui fino ad oggi si è affrontato il tema
La situazione dell’
immigrazione è completamente sfuggita di mano. In poche settimane si è passati da un diffuso apprezzamento dell’operato del governo italiano a una critica sempre più severa. Quella che era stata presentata come una possibile soluzione si è rivelata ben presto un rimedio peggiore del male.
La documentazione delle condizioni disastrose di migranti bloccati in mare e
deportati nei campi di detenzione libici ha sollevato il velo su quella che ha tutta l’aria di una nuova tratta degli schiavi. L’accordo di agosto, firmato dal ministro Minniti con le diverse fazioni del governo libico, tutt’altro che mettere alle corde gli scafisti, ha dato loro il tempo di riorganizzarsi spostando più a sud le attività criminali. In campi senza regole in cui non possono accedere né medici, né osservatori né polizia.
L’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani ha parlato di
catastrofe umanitaria, mentre i reportage della Cnn hanno mostrato scene raccapriccianti di esseri umani ammassati gli uni sugli altri, esposti alle peggiori violenze. Quando quello che è stato chiamato eufemisticamente “incidente” in mare ha causato cinquanta morti con l’evidente responsabilità delle imbarcazioni costiere libiche, sotto lo sguardo impotente di quelle italiane, la fragile tregua politica si è rotta.
Emma Bonino ha attaccato duramente il governo con l’autorità di chi da anni si batte per una nuova politica dell’immigrazione. Il governo ha accusato il colpo, oscillando tra una difesa d’ufficio dell’accordo stipulato e l’impossibilità di negare i fatti, ormai sotto gli occhi di tutti. Del resto la difficoltà non è solo del governo italiano.
L’intera
sinistra europea - o quello che ne rimane - è stretta nella morsa tra paura di perdere consenso e necessità di non smarrire del tutto la propria “ragione sociale”. Come uscire dall’impasse? Come fermare una strage che sta trasformando il Mediterraneo in un “cimitero marino” e l’entroterra libico in un inferno? Se si resta sul terreno della tattica elettorale, la partita è perduta in partenza. Ma uscirne vuol dire fare ciò che non si è mai fatto:
ripensare radicalmente il fenomeno della migrazione non solo nella sua emergenza attuale, ma nella sua dimensione profonda.
È quanto invita, per la prima volta, a fare il nuovo libro di Donatella Di Cesare “Stranieri Residenti. Una filosofia della migrazione” (Bollati Boringhieri). La migrazione non è un fenomeno da gestire con accorgimenti temporanei, una disgrazia da contenere con accordi al ribasso, come quello con la Turchia. Ma la questione politica del nostro tempo. Che sta già spostando i confini della politica e dell’etica, esigendo forme di pensiero adeguate alla portata del cambiamento in atto. Perciò, come accade in tutti i passaggi di civiltà, siamo di fronte a una questione che riguarda allo stesso tempo la politica e la filosofia, il diritto e l’antropologia.
Per porsi alla sua altezza, è necessario innanzitutto un
cambiamento di prospettiva rispetto al modo in cui si è finora guardato al fenomeno. Si tratta di inquadrarlo non solo dal nostro, ma anche dal loro punto di vista. Guardare quei barconi della disperazione non dalla terra, ma dal mare, non da dentro le nostre frontiere, protetti dai muri reali e psicologici che ci siamo costruiti, ma dal di fuori, dalla parte di coloro che arrivano. In questo modo solamente riusciremo a vedere qualcosa che altrimenti non resterà altro che una minacciosa macchia scura, senza contorni e senza spessore. Soltanto quando sarà colata a picco, scaricando sulle nostre coste il suo carico di morte - come le donne senza vita approdate sulle spiagge campane - quella macchia cieca scuoterà le nostre coscienze, strappandole per qualche momento alla loro assuefazione. Quando sarà troppo tardi.
Troppo tardi per agire, ma anche per capire. Per cogliere il significato di quanto sta accadendo in una maniera destinata a ridisegnare radicalmente i tratti della nostra civiltà politica, morale, culturale. Eppure quello che sembra incalzarci come una novità di questi anni viene da lontano.
Come ricorda Di Cesare, e prima di lei Hannah Arendt, già all’inizio del secolo scorso la questione degli apolidi costituisce la breccia che si apre nell’universo, allora compatto, degli Stati europei. Quale statuto attribuire a esseri umani non protetti dallo scudo nazionale, ma presenti come minoranze discriminate in tutto il continente?
Si conosce la soluzione che il nazismo ha tentato d’imporre, trascinando il mondo in una terribile voragine. Ma neanche i Paesi democratici, usciti vincitori dal conflitto, sono riusciti a trattare con lungimiranza la questione degli “stranieri interni”. Come pensare, in termini politici e giuridici, quello che appare un ossimoro dal punto di vista delle classiche bipartizioni tra interno ed esterno, cittadino nativo e immigrato? La moltiplicazione di termini che provano a nominare questa contraddizione vivente - esule, apolide, nomade, profugo, rifugiato - esprime la difficoltà del lessico politico moderno a misurarsi con qualcosa che non rientra nei suoi confini e ne sfida la logica escludente.
Eppure basterebbe guardare alla formazione del più potente Stato del mondo - gli Stati Uniti d’America - per cogliere la straordinaria produttività di
un diverso modello di integrazione. Anche a non voler risalire più lontano, nel trentennio a cavallo tra Otto e Novecento più di quindici milioni di persone provenienti dall’Europa costituisce il nuovo popolo destinato a diventare la più grande democrazia del mondo. Certo, non senza esclusioni e sofferenze. Con una riduzione progressiva del numero degli ingressi, fino alla chiusura delle frontiere portata oggi alla paranoia da Trump. Eppure quel modello continua a indicare una possibilità diversa di adoperare la straordinaria risorsa contenuta nella circolazione di donne e uomini oltre i confini nazionali. Certo, è impossibile non riconoscere la distanza che ci separa da quella stagione.
I sommovimenti geopolitici che, nonostante e proprio a partire dalla globalizzazione, scavano faglie profonde nel mondo contemporaneo. L’intreccio esiziale di guerra e terrorismo, potenziato da una serie ininterrotta di crisi economiche, che genera paure vecchie nuove. La sindrome immunitaria che sacrifica ogni giorno un pezzo di libertà, e anche di dignità, alle politiche securitarie. Ma è come voler fermare le onde del mare con barriere di sabbia. Chi si illuda che si risolvano i problemi del nostro tempo ritornando al passato, anziché tentare il futuro, non ha capito nulla di quanto sta accadendo.