Pubblichiamo qui la prima lettera che la bibliotecaria tedesca Hety Schmitt-Maass scrisse all'autore di 'Se questo è un uomo' il 18 ottobre 1966. Fu la prima di un lungo carteggio

Signor Primo Levi a Torino,
già da anni è uscito il Suo libro nelle edizioni Fischer. L’ho “scoperto” solamente ora. Più precisamente: il signor Hermann Langbein me lo ha fatto notare. Ha letto la mia recensione di alcuni libri sul tema “il recente passato tedesco” e ha notato che non l’avevo menzionato; sono riuscita a porre rimedio a questa mancanza - in vista della discussione (che desidero mandarle prima che esca su un giornale tedesco) e soprattutto per me stessa. Spero che Lei sia tra quelli che ancora oggi (così tanti anni dopo!) sono felici di venire a sapere che il loro libro continua ad avere una buona risonanza e che viene letto. Penso che conserverà una tale popolarità per un lungo periodo.

Capire “i tedeschi” sicuramente non Le riuscirà - non riesce neanche a noi tedeschi; all’epoca è avvenuto così tanto che non sarebbe mai dovuto accadere, per niente al mondo; ha fatto sì che un gran numero di tedeschi abbia in realtà perso per sempre tutto ciò che la Germania una volta aveva significato - concetti come “madre patria” sono stati cancellati. Tuttavia, persino il lutto per le speranze perdute, per gli ideali perduti (o come vogliamo chiamarli) e la vergogna per tutto ciò che i tedeschi hanno combinato sbiadiscono con il tempo; questo succede addirittura anche a quelli che cercano di comprendere. Ciò che, ciononostante, non ci è permesso è dimenticare tutto questo. Libri come il Suo, che ricordano in una maniera così umana il disumano, sono dunque, in particolare per la nuova generazione, estremamente importanti. (Desidero scrivere all’editore Fischer e chiedere se non sia possibile ristampare questo libro importante; poiché è esaurito, potrei ottenerlo solamente in prestito. Ed in particolare mi dispiace soprattutto non poterlo consigliare ad altri, come vorrei).

All’epoca avevo alcuni amici e persone di fiducia nei campi di concentramento tedeschi. Ma nessuno ad Auschwitz. Il signor Langbein è la prima persona in cui mi sono imbattuta; “imbattuta” per strada, grazie al suo ultimo libro. E ora voglio solamente dirle che anche il Suo libro è diventato un “incontro”; questo non capita molto spesso. Spero di essermi avvicinata di qualche passo al cogliere - al capire. Completamente non lo capiremo mai, noi che eravamo “fuori”, davanti al filo spinato; ma se tentiamo di capire, è forse già un passo avanti. E dobbiamo ringraziare ognuno di voi che si esprime in una tal maniera da farci osare per lo meno questo tentativo.

Per giorni mi sono portata il piccolo volume della libreria Fischer letteralmente con me, dovunque, e mi sono riletta più volte alcuni passaggi. Forse Lei non si rende conto di quanto una persona possa dire di sé - e con ciò sull’uomo in generale - ; questo rende però ogni paragrafo dello scritto semplicemente più importante
e qui prezioso. Ciò che in particolare mi ha colpito sono state le esperienze nello stabilimento Buna. Dunque era così quando i “liberi” incontravano i “prigionieri”. Mi chiedo che altro mi fossi aspettata. Le uniche possibilità di contatto - all’epoca - erano i prigionieri di guerra russi che per esempio in autunno dovevano portarci carbone o patate in cantina (se si tentava di dare loro di nascosto per lo meno delle mele e delle sigarette - e questo si svolgeva in cantina perché era “punibile” - ringraziavano dicendo “Heil Hitler!”…), oppure con i “lavoratori stranieri”, cioè quelli “ai lavori forzati”; tra questi c’era, ad esempio, una giovane francese che ogni tanto riuscivo a far uscire dal suo campo di concentramento - era “permesso” invitarla a casa, portarla ad un concerto, rifornirla di vestiti e cibo. Che cosa avrei fatto se avessi dovuto (o potuto) lavorare con i prigionieri? Anche questa ragazza non poteva lavarsi nel campo di concentramento dei prigionieri ai lavori forzati
e aveva i pidocchi… E mi ricordo, non senza vergogna, che mi dava fastidio - che sì lo accettavo - ma che ospitarla mi costava sforzo.

“Se questo è un uomo” - questa espressione la riferisco a coloro che non sono mai stati dietro al filo spinato; attraverso le Sue esperienze della Buna, Lei mostra in modo chiarissimo che noi spesso siamo stati poco “uomini”. E assolutamente non riesco ora, pur con sufficiente distacco, a dire che ciò non mi riguardi per niente… (a proposito: per caso, là non si è imbattuto nell’ingegnere capo di nome Heidebroek? Vorrei sapere che ruolo abbia effettivamente avuto nella Buna nei confronti dei detenuti).

Si potrà mai “superare” il fatto di essere stato prigioniero a Auschwitz? Sicuramente no, Io sono sempre in vena
di “penitenza” e “ammenda” quando tento di riflettere su tutto questo; se almeno potessimo ottenere
che qualcosa di simile non si ripeta mai più! Spero che non soffra più troppo per il passato
e Le mando un saluto [manca una riga scritta a mano]

Traduzione di Tiziana Roncoroni