Il no al linguaggio sessista è l'occasione per liberarsi da una gabbia. E servirebbero persone capaci di ribellarsi al modo in cui oggi ci si rivolge e si parla dell'altro sesso
"Ecco arrivano
, guarda là come si sono acchittate, ma dove vanno così, neanche fossero Belen! C’è anche quella cessa della tua amica figa”.
Frammenti di un discorso, lo so, e magari ci vorrebbe un contesto, qualche elemento in più della storia, un certo sguardo complice o compassionevole verso quei due uomini che stanno commentando l’arrivo di donne che conoscono, che sono amiche, amanti, compagne, ma va bene anche del tutto sconosciute. Così, magari, sapendo chi sono questi uomini, avendo di loro un’idea meno stereotipata, o pregiudizievole, non ci sentiremmo a disagio, non proveremmo, come donne, intendo,
una certa repulsione, perfino un po’ di amarezza. Se poi la prendessimo un po’ meno sul serio questa storia delle parole, se ci passassimo un po’ sopra, se ci tenessimo leggere, tutto risulterebbe piuttosto normale, risibile, perfino ridicolo. Perché poi se ci mettiamo tutte le volte a sottolineare che le parole sono importanti, che hanno a che fare col pensiero, sai che noia, che pesantezza.
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Ammettiamo che i due protagonisti della nostra piccola vicenda quotidiana, siano solo in vena di scherzare, che abbiano deciso di lasciarsi andare a un po’ di volgarità espressiva, così, perché è sera, perché ogni tanto succede. Anche tra donne, o no? E diciamo che hanno voglia di appiattirsi per un momento su quel modello etero, vecchio, sessista, maschilista, che se parla così non è certo per dire male o etichettare una donna con le sole due etichette che contano, estetiche sì, ma sessuali, diciamo. In fondo, avrei potuto sentire ben altro, una su tutte quella zoccola della tua fidanzata, moglie, amica, sorella, suocera, ma anche mamma, o no?, per stare nella sfera delle relazioni private, e non andare verso quelle relazioni in cui il potere gerarchico è più manifesto e ingombrante.
Vogliamo contare
il numero di volte che la parola zoccola viene pronunciata, tra i vari stronza, troia, puttana? Che tradisca qualcuno, che faccia cose che non dovrebbe fare, che lasci o non perdoni, che sia se stessa o che menta, che ricopra un ruolo o cerchi di emanciparsi da qualunque definizione non sia conosciuta e rassicurante, comunque, una donna è stata, è, e sarà sempre un po’ zoccola, cioè, stando all’etimologia, ho controllato, sorcula, diminutivo femminile del latino classico sorex -?cis «sorcio» incrociato con zoccolo: topo di chiavica o fogna. Epiteto ingiurioso, prostituta, volgarmente, puttana.
Ma siamo veramente così? Ancora? Così vecchi nei modi, nel linguaggio, nel modo di guardare il mondo, di guardarci, e di vedere una donna? Di quale linguaggio ci serviamo? Di cos’altro disponiamo per raccontare l’uno all’altra chi siamo, cosa pensiamo, cosa vogliamo fare di noi, se non la scelta delle parole e la consapevolezza di ciò a cui rimandano, il mondo di cui parlano?
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Le parole non sono suoni vuoti nell’aria, le parole non volano da nessuna parte, se per volare intendiamo non avere valore. Sono potenti, hanno il potere di definire, e quindi conoscere ciò a cui rimandano, portano su di sé la storia, la cultura, l’educazione di ciascun individuo e di una società, danno vita a quel sistema di segni che ci rende unici. Il linguaggio non è astratto, l’invisibilità, l’immaterialità delle parole non ha a che fare con l’inconsistenza o la volatilità.
Le parole vengono dai nostri corpi, le abbiamo incarnate dentro, sono incorporate a ciò che siamo e quindi a ciò che pensiamo. Di più, le parole pesano diversamente, perché il loro portato è diverso per ciascuno di noi.
Pensiamo alla banalità di certi aggettivi: curioso è un uomo intelligente, acuto, curiosa è una donna pettegola, impicciona, sapiente è un uomo che conosce, che sa, sapiente è una donna saccente, che esibisce il suo sapere. Vi è mai capitato?
Una donna intelligente vuole dire troppo intelligente, o rompi coglioni. Una donna che vale qualcosa, che abbia carattere, è una donna con le palle. Stessi attributi perché la misura in positivo e negativo è la stessa. Ci si scherza su, ma sarebbe meglio non scherzare, se la questione è così viva il dileggio non funziona, non esorcizza, perché si resta appiattiti sullo stereotipo, si resta schiacciati sulle stesse premesse e conclusioni.
Maschi e femmine, dominanti e dominate,
uomini soggetti predatori, donne oggetti sessuali, madri e mogli irreprensibili, androgini o donne mascolinamente competitive. Siamo dentro fino al collo nella palude degli stereotipi di genere, se non fosse per alcune riflessioni, invenzioni, risvegli ma diciamo pure rivoluzioni da parte di alcune donne, di quelle che in cento anni hanno cambiato la percezione di sé e del mondo, hanno cambiato soggetto alla narrazione. Con tutto che ancora restano zone oscure, ambigue, contraddittorie dove anche le donne giocano a emanciparsi facendo leva su quei ruoli in cui prima non avevano potere di scelta: sessualità e maternità.
Le donne hanno incorporato il linguaggio maschile anche per strappare un potere, e un piacere, è innegabile. Ma che dire di quella complicità che supera ogni differenza di classe, di status, di cultura, quella maschile, che non ripulisce mai il linguaggio, che si assolve e si legittima, che fa del proprio ruolo quello dominante? Che perdita c’è nel non demonizzare, svilire, umiliare l’altro se l’altro da sé non facesse così paura? O se l’altro non fosse quella donna che a vederla libera, autodeterminata, né sedotta né seduttrice, direbbe Lea Melandri, mettesse così paura? Non sarà una vecchia questione di potere se è vero che lo sguardo sessista ha che fare con le nostre radici culturali, con una mentalità ottusa, chiusa, poco disposta a porsi domande nuove, quelle che le donne si sono poste, si pongono e pongono?
Il linguaggio che usiamo nella nostra vita personale, e intima, non ha che fare solo con noi ma con quello che rappresenta nel tutto culturale, sociale, politico di cui facciamo parte.
Dopo tanta riflessione delle donne sulle parole e sui corpi, forse finalmente ci vorrebbe un uomo, non uno solo!, che in mezzo al branco dicesse: Scusate, ma perché parlate in questo modo?, che tagliasse il cordone dell’approvazione, della solidarietà, della complicità, che sbugiardasse quel modello di uomo che sembra così difficile da superare, che sovvertisse i codici millenari di una narrazione unisessuale, quella maschile di tutta la storia, sapendo che nel farlo, quello che ad altri uomini potrebbe sembrare una debolezza, una sconfessione della virilità, l’ammissione di una certa sensibilità femminile - femminile?, è invece una prova di libertà. Libertà. Quell’uomo, non uno solo!, avrebbe la straordinaria occasione di liberarsi dalla gabbia in cui sembra essersi fatto prigioniero lui stesso, piena di luoghi comuni, di pensieri piccoli, di un linguaggio fisico e verbale a cui deve - deve?, corrispondere per sentirsi, o dimostrare di essere, uomo.