La potenza del nuovo jihadismo si scarica sul nostro modo di ragionare e lo mette fuori uso. Eppure mai come oggi servirebbe uno sguardo filosofico sul terrore

Sembra che tra filosofia e terrore vi sia una certa incomunicabilità. Salvo rari casi - come alcune celebri pagine di Hegel sulla Rivoluzione francese - la filosofia ha sempre mostrato una sorta di reticenza a misurarsi col terrore, e dunque anche col terrorismo. Dopo l’11 settembre, forse i due maggiori filosofi del nostro tempo, Habermas e Derrida, hanno provato a confrontarsi sul significato di quell’evento sconvolgente. Ma i risultati appaiono inferiori alle aspettative. Eppure mai come oggi uno sguardo filosofico sul terrore sarebbe necessario. Come fronteggiare qualcosa che non si è in grado neanche di capire? Senza una comprensione profonda di questa orrenda macchina di morte, non è facile combatterla con fermezza ed efficacia.

Uno strappo in questa coltre di opacità è adesso aperto dal libro, importante e intenso, di Donatella Di Cesare “Terrore e modernità”, appena pubblicato da Einaudi. Senza poterne ripercorrere gli argomenti, da esso viene più di una risposta alla nostra domanda. Perché la filosofia resta cieca nei confronti del terrore? E perché il terrore non riesce a interpellare il pensiero? Una prima risposta riguarda il carattere indefinito, informe, indifferenziato del terrore - e del terrorismo che ne costituisce l’agente principale. Il suo effetto più estremo - e appunto terrorizzante - è quello di cancellare i limiti, di confondere i confini. Tra pace e guerra, locale e globale, arcaico e attuale. Col terrore jihadista, una guerra totale, che ingloba in sé anche la pace, tende a diventare la nuova forma del mondo. Non la terza guerra mondiale a pezzi, come dice papa Francesco, ma la prima guerra civile mondiale. Una guerra fatta allo stesso tempo di coltelli, droni, autobombe, operazioni teleguidate a distanza e carneficine.

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È questo miscuglio senza limiti che la filosofia ha difficoltà a investire - da cui sembra ritrarsi disgustata e impaurita di qualcosa che mette in crisi tutte le sue coordinate. Spaziali, temporali, concettuali. Quelle spaziali perché il nuovo terrore intreccia indissolubilmente dimensione globale e dimensione locale. Nato dalla globalizzazione - e di fatto traboccato in tutto il mondo - esso ha provato a costituirsi un territorio statale situato tra Iraq e Siria, di cui cerca di difendere disperatamente le frontiere. Se ancora al Qaeda evocava repentini spostamenti tra sabbia e rocce, il Califfato richiama una fortezza assediata. Ai piloti suicidi schiantati sulle Due Torri, addestrati in Usa a guidare aerei americani, succedono i miliziani neri che difendono una a una le strade di Mosul o di Raqqa. Tutto ciò determina una vera e propria esplosione della distinzione, cui il nostro pensiero è abituato, tra interno ed esterno, dentro e fuori. La potenza dissolutiva del terrore si scarica, prima ancora che sulle vittime inermi, sulla cornice spaziale del nostro modo di ragionare, mettendolo fuori uso.

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Ma la rottura di confini, operata dal terrore, sconvolge anche le nostre coordinate temporali - in particolare quella, cui siamo più affezionati, tra Antico e Moderno, tra un passato ancestrale e un presente precipitato verso il futuro. Perché la sua caratteristica prima è appunto la capacità di travestire di primitivismo la propria aggiornatissima tecnologia e viceversa. Il fascino perverso che il terrorismo islamico esercita sui suoi giovanissimi adepti risiede precisamente in questa contaminazione. Nella sovrapposizione tra l’arcaicità di rituali, costumi, linguaggi che paiono venire da un’epoca preistorica e l’uso spregiudicato di modernissime tecniche pubblicitarie di cui neppure gli operatori occidentali sono ancora padroni. Le immagini che scorrono in quei siti hanno la potenza onirica della fusione tra reale e immaginario, violenza e dolcezza, minaccia e promessa. Alla minaccia contro tutti coloro che non accettano la nuova umma, inginocchiandosi al potere del suo capo assoluto, corrisponde la promessa di una vita armoniosa, profondamente radicata nei valori della tradizione, confortata dalla certezza di una ricompensa di piacere infinito.

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Ma ciò che mette in crisi la ragione occidentale, originata dal logos greco e fecondata dall’Illuminismo, è soprattutto il rapporto del terrore con la morte. Non tanto con la morte altrui, ma con la propria. Non la morte inflitta agli infedeli, ma quella invocata dagli stessi “cavalieri dell’apocalisse”, come la Di Cesare definisce i terroristi. La mescolanza macabra di membra tagliate, scomposte, incenerite da bombe umane. È questa poltiglia di carne l’epicentro intorno al quale ruota il dispositivo del terrorismo jihadista - differenziandolo da tutti i precedenti, in cui la morte dell’attentatore era un danno collaterale previsto, ma non l’esito destinato dell’attentato. Ciò che il nostro pensiero, di matrice cristiana da tempo secolarizzata, non tollera è questo punto oscuro, questo buco nero che inghiotte ogni senso e distrugge la forza comunicativa del simbolo. Contro il simbolico si delinea il profilo, letteralmente inguardabile, del Reale, nel senso che Lacan conferiva a questo termine. Reale è precisamente quello che non si fa simbolizzare, che spezza la possibilità, necessaria alla vita, di dare significato all’esperienza.

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Al centro dell’esperienza della tradizione filosofica legata al monoteismo cristiano, e anche a quello ebraico, vi è la relazione tra la vita e la morte. La morte si può dare e ricevere - essa comunque arriverà. Ma tutto ciò può essere subíto, e perfino accettato, soltanto dal punto di vista della vita. Della resistenza che la vita comunque oppone alla morte. Come diceva il grande anatomista francese Xavier Bichat, che pure faceva pratica medica sezionando i corpi dei ghigliottinati, la vita non è altro che quel complesso di funzioni che resistono alla morte. Quella che oggi la filosofia più avanzata definisce biopolitica, e che da almeno due secoli segna il rapporto sempre più vincolante tra politica e biologia, prevede che la morte non sia altro che il resto lasciato ai margini dalla continua cura per la vita.

La sacralità della vita, a partire dal Cristianesimo, costituisce il nucleo simbolico della concezione occidentale. Porre nel luogo sacro della vita l’idolo della morte, rapportare la morte non alla vita, ma alla stessa morte, raddoppiare la morte della vittima con quella del carnefice, è ciò che il nostro pensiero non riesce a pensare. Eppure è precisamente quanto occorrerebbe fare per poter penetrare nella scatola nera del terrore. E per combatterlo fino a ricacciarlo dall’inferno da cui è venuto.