Non solo cervelli. Se ne vanno nella capitale inglese, alla Julliard. O nei club tedeschi. Anche a chi suona per vivere, emigrare conviene

È uno dei jazzisti più affermati a New York, è stato direttore della programmazione del Jazz at Linconln Center, ha insegnato alla Juilliard e, se capitate a Manhattan, lo trovate quasi tutte le sere al pianoforte degli esclusivi The Pierre e Harvard Club. Ed è italiano. «Il motivo per cui ho lasciato il mio paese è soprattutto culturale», racconta deciso Antonio Ciacca, cresciuto a Volturino in provincia di Foggia e oramai in pianta stabile nella Grande Mela.

D’altronde le anticipazioni del Dossier Statistico Immigrazione 2017 di Idos e Confronti dello scorso luglio hanno rivelato che l’emigrazione degli italiani sta tornando progressivamente ai livelli del dopoguerra, con una stima di 285mila persone nel solo 2016. Molti, tra oro, sono “cervelli in fuga”, giovani che avrebbero grandi potenzialità ma non riescono a realizzarle nel nostro paese. E tra loro, c’è stato e c’è anche chi vuole fare della musica il proprio mestiere.

«Non volevo che i miei figli vivessero in una nazione feudale», continua Ciacca. «A New York ho avuto risultati che in Italia non avrei mai raggiunto senza gli amici degli amici, solo perché ci sono posizioni di potere che durano tutta la vita. Qui invece i direttori artistici e di dipartimento cambiano: nessuno dirige un festival per quarant’anni coinvolgendo sempre le stesse persone. Nessuno interagisce tra feudi con la logica molto italiana dello scambio». Però l’Italia lo sta chiamando spesso, gli faccio notare: Ciacca ha concluso da poco una serie di concerti e seminari, e a dicembre riprendi la direzione dell’Orchestra ICO della Magna Grecia per un tour in Puglia e Basilicata. «Adesso mi cercano perché il mio nome è rilevante nell’ambiente musicale, e ne sono molto felice, ma è diverso rispetto ad avere spazio quando non ti conosce nessuno».

Anche i Guappecartò hanno conservato un legame con la loro Italia, però si sono trasferiti a Parigi poche settimane dopo aver formato il gruppo. Suonano musica mediterranea e tzigana, e fanno parte della colonna sonora del film “Gatta Cenerentola” appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Il modo più semplice per incontrarli è ascoltarli dal vivo: hanno terminato un tour europeo di due anni e mezzo, e il 18 novembre debuttano al Prisme di Elancourt, in Francia, con un nuovo concerto teatralizzato. «Qui c’è una grande attenzione per tutti i generi musicali e gli artisti possono vivere crescendo a contatto con continue contaminazioni», dice Dottor Zingarone, fisarmonicista, che racconta anche di un altro progetto.

«A novembre inizieremo a lavorare a un disco basato sugli spartiti inediti di Vladimir Sambo, musicista nato a Fiume e poi trapiantato in Svezia. Essere “intermittenti dello spettacolo” ci permette di avere un contributo statale quando non lavoriamo, ma la verità è che ci sono molte occasioni per suonare perché le istituzioni investono in cultura. In Italia, invece, avvertiamo la carenza di un vero programma di sostegno nazionale. Però per fortuna noi non siamo cantautori: i francesi sono molto legati alla tradizione degli chansonniers e se non capiscono un cantautore si allontanano facilmente. Diciamo che avremmo fatto molta fatica in più».

Perché è vero che l’italiano non è tra le lingue più diffuse al mondo. E questo elemento, nel mercato musicale, è stato considerato spesso come un ostacolo. «Ma quante volte abbiamo intonato un brano straniero senza sapere cosa volesse dire il testo?», domanda retorico Giacomo Lariccia. Lui fa il cantautore a Bruxelles, in italiano. «La comunicatività di una lingua dipende anche dal modo in cui viene proposta e la nostra tradizione era tra le più apprezzate al mondo, tant’è vero che quando mi sono trasferito ho trovato registrazioni di personaggi come Wes Montgomery che interpretavano pezzi di Gino Paoli».

Dopo Francia, Lussemburgo, Israele e Inghilterra, il romano Lariccia prosegue il tour europeo per promuovere il suo quarto album, “Ricostruire”, e in Belgio aveva già ricevuto una bella attenzione per i primi lavori dal quotidiano Le Soir e dalla radio nazionale francofona La Première. Il 30 settembre suona al Diaspora Festival di Brugge e poi ha date a Liegi, Zurigo… «Mi muovo all’interno di un apprezzamento generale per tutto ciò che è italiano, inteso come lingua e cultura, e non passo per i canali di musica pop ma di world music. In Belgio c’è molta curiosità, e la creazione artistica è considerata un valore da proteggere e sostenere».   

Sono in molti tra i “musicisti in fuga” a parlare di opportunità e riconoscimento. Dieci anni fa, Michele Benincaso ha fatto un biglietto di sola andata per Stoccolma dopo una lunga esperienza come liutaio e musicista a Cremona: ha creato Sensus, una startup incubata in Svezia per lavorare a strumenti musicali di nuova generazione. Più a sud si è trasferito il sassofonista Leonardo La Peruta, che ha scelto Fuengirola, nel sud della Spagna, per far nascere un’impresa di formazione, management e servizi per lo spettacolo. Andrea Benini vive a Berlino, è musicista, compositore e produttore, e ha fondato la jazz band Mop Mop che si esibisce in tutta Europa.

Davide “Shorty” Sciortino è conosciuto in Italia soprattutto grazie alla sua partecipazione a X Factor. Lui è siciliano, vive e fa musica a Londra dal 2010, e ha sfruttato il programma in onda su Sky per far conoscere un percorso già importante e avviato negli anni. Ma gli esempi del presente richiamano tante esperienze del passato: all’inizio del secolo scorso, Salvatore Cardillo e Riccardo Cordiferro (pseudonimo di Alessandro Sisca) hanno scritto la famosa “Core ‘ngrato” a New York, dove erano emigrati. «È anche questione di rispetto e considerazione», dice Marco Testa, batterista a Londra nei Marlon Brando Island e nei Medium Wave. «Pensare di poter suonare per mestiere non viene considerato il sogno irresponsabile di un adolescente, ma un percorso come tanti altri. Ed è bello essere guardati come musicisti anche se non ti occupi di classica».

Londra è una meta assai gettonata per chi vuole fare musica, con una tradizione aperta e nuove tendenze pronte a irrompere. Francesco Mendolia c’ha messo radici nove anni fa ed è diventato il batterista degli Incognito, una delle band jazz/funky/soul più famose al mondo. “Sono andato via perché avevo smesso di essere creativo, mentre dal 2008 a oggi ho lavorato con personaggi come Chaka Khan, George Benson, Eurythmics, Jocelyn Brown… Grazie agli Incognito sono costretto a cambiare passaporto più volte all’anno, e quando abitavo a Roma il passaporto non ce l’avevo nemmeno. Non voglio rinnegare la mia formazione al Conservatorio Santa Cecilia e le mie esperienze italiane che mi hanno fatto crescere molto, però gli artisti sono gelosi di un lavoro che scarseggia e gli emergenti fanno una fatica enorme a farsi notare. A Londra, invece, c’è la cultura della musica live che offre molte opportunità e tutto guarda alla meritocrazia. Loro ti danno una chance e il resto dipende da come giochi le tue carte».

Tutt’altro genere è quello di Enrica Sciandrone, che nella capitale inglese è arrivata per un master in composizione al Royal College of Music e poi c’è rimasta, anche perché il college le ha offerto un contratto part-time come docente. Sono molte le realtà con le quali ha collaborato. Adesso aspetta l’uscita di “Tiempo de lluvia”, una co-produzione internazionale diretta da Itandehui Jansen, e non vuole essere considerata come un cervello in fuga che disprezza il proprio paese. «Continuo a lavorare con l’Italia con grande piacere: “Rudy Valentino” di Nico Cirasola è stato presentato a giugno allo Shangai Film Festival e “American Fango” di Gabriele Altobelli sta per arrivare in Canada e Stati Uniti. Ma devo ammettere che sono conoscenze dirette, perché uscendo dalla cerchia diventa tutto molto vago. In Inghilterra, invece, puoi contattare qualunque produzione cinematografica o televisiva, parlare con un responsabile del reparto musicale per sapere se hanno bisogno di un compositore e presentare la tua candidatura. Non tornerei in Italia perché il mio mestiere funziona benissimo anche in remoto, perché lavoro in un college prestigioso e il mercato ha molte connessione con l’America, che spesso si avvale di professionisti e studi di registrazione inglesi. E poi c’è anche meno pregiudizio nei confronti delle compositrici. Forse è un caso, ma le uniche ad aver vinto un Oscar per la colonna sonora sono Rachel Portman e Anne Dudley, tutte e due inglesi».