La contestazione chiedeva più politica. Invece ha prodotto la crisi, più egoismo, la rabbia di oggi. Uno storico apre il dibattito

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Il Sessantotto compie mezzo secolo in un periodo nel quale la politica è in grande difficoltà. I segnali sono numerosi, e si presentano in quasi tutte le democrazie avanzate: dalla presidenza Trump alla Brexit, dalla scarsa partecipazione alle elezioni francesi al successo elettorale di Alternative für Deutschland e allo stallo politico in Germania, per arrivare all’infelice condizione della vita pubblica nostrana. Questi sono – appunto – segnali: non cause, ma sintomi d’una crisi storica. Il cinquantenario del Sessantotto ci dà l’occasione per chiederci quale sia il rapporto fra gli eventi di mezzo secolo fa e il travaglio politico dei nostri tempi. La risposta è che un rapporto non soltanto c’è, ma è stretto: il Sessantotto è uno snodo cruciale d’una vicenda pluridecennale che pare esser arrivata oggi alla sua piena maturazione.

Ma come - si obietterà -, un anno stracolmo di politica come il 1968 diviene parte d’una storia che si conclude, sia pure cinque decenni dopo, con una crisi della politica? In effetti, nelle democrazie occidentali la contestazione sessantottina nasce anche dal desiderio di ribellarsi contro i limiti ch’erano stati imposti alla politica dopo il 1945. Il desiderio di ribellarsi contro il principio secondo cui alcuni àmbiti - a partire dalla vita famigliare - dovevano esser tenuti il più possibile separati dai conflitti pubblici. Al contrario: «il privato è politico!». Il desiderio di ribellarsi contro i limiti che le tecnocrazie e l’“oggettività” scientifica imponevano al pieno dispiegarsi della volontà umana di cambiamento. Al contrario: «vogliamo tutto!»; «siate realisti, chiedete l’impossibile!». Il Sessantotto, insomma, vuole più politica: la produzione d’uno sforzo di trasformazione collettiva profondo, radicale, impaziente d’ogni limite in estensione o intensità.
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Questo desiderio di azione collettiva, tuttavia, monta in un momento nel quale le grandi ideologie che avrebbero potuto orientare quell’azione sono ormai o del tutto defunte, o in profonda crisi. A cominciare dalla più rilevante fra di esse. Il marxismo, in una forma o nell’altra, è l’ideologia portante della contestazione sessantottina. Ma in quegli anni è già irrimediabilmente colpito dalla degenerazione del socialismo reale, e forse ancor di più dal successo delle economie capitalistiche occidentali, che ne falsifica una delle profezie cruciali: la proletarizzazione universale. Alla crisi dei grandi progetti di emancipazione collettiva fa da controcanto l’affermazione crescente del desiderio di emancipazione individuale: se non possiamo essere liberi insieme, almeno che lo sia io! Non per caso, uno dei pensatori più influenti del Sessantotto è Herbert Marcuse, intento a superare lo stallo del marxismo immaginando che il desiderio individuale possa fungere da leva rivoluzionaria.

Se non che, il desiderio di liberazione individuale è destinato a entrare in conflitto col desiderio di liberazione collettiva - ossia con la politica. L’azione collettiva richiede organizzazione e disciplina: subordinazione delle aspirazioni personali agli scopi comuni. E tanto più ne richiede, quanto più ambiziosi sono i suoi obiettivi. Lo mette in evidenza già all’epoca uno dei critici più acuti del Sessantotto, Augusto Del Noce, parlando proprio di Marcuse: «una rivoluzione antipuritana è quel che egli sa proporre: un vero ferro di legno, per una ragione storica intrinseca … che il motivo puritano è essenziale a ogni posizione rivoluzionaria seria … Marcuse può perciò essere definito come il filosofo della decomposizione della rivoluzione». Là dove per “puritanesimo” bisogna intendere appunto la negazione di se stessi, dei propri desideri individuali, in vista d’un obiettivo rivoluzionario da raggiungere tutti insieme.
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Questa contraddizione è una delle ragioni, e non la minore, per le quali la contestazione sessantottina non riesce a dar vita a un movimento politico ampio e robusto, ma si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale. La contraddizione del resto era ben presente già ai protagonisti dell’epoca – a Rudi Dutschke, ad esempio, a Daniel Cohn-Bendit. Una delle organizzazioni più importanti del Sessantotto tedesco, la Lega degli studenti socialisti, si scioglie nel 1970 perché «se la liberazione della società non è possibile qui e ora», la Lega «dovrebbe almeno garantire democrazia ed emancipazione nel proprio ambito». Deve insomma emanciparsi da se stessa.

Fra le due anime del movimento studentesco, quella marcusiana e quella stalinista, nel breve giro di qualche anno finisce così per prevalere largamente la prima, notava nel 1980 Nello Ajello in un libro dal titolo assai indicativo: “Il trionfo del privato”. È un Marcuse depoliticizzato, però: non la soddisfazione del desiderio individuale come strumento di rivoluzione politica - ma la soddisfazione del desiderio individuale punto e basta. La vicenda di «Lotta Continua», che Ajello analizza nelle pagine citate, mostra bene questo passaggio: intorno alla metà degli anni Settanta il giornale diventa «l’organo più rappresentativo di una mentalità giovanile di sinistra nella quale il conflitto fra “privato” e “politico” si sta concludendo con una larga vittoria del primo». Così scrive in quegli anni un lettore al giornale: «Siate realisti, domandate l’impossibile, dicevano i compagni del maggio francese. Bene, noi vogliamo essere felici». Nello stesso torno di tempo, secondo la studiosa americana Kristin Ross, si modifica la memoria del Sessantotto francese: del suo contenuto politico si perde il ricordo, mentre le sue componenti esistenziali e culturali si dilatano fino a occupare tutta la scena.

La politicità del Sessantotto si scioglie quindi nel giro di pochi anni nell’affermarsi dell’individualismo? Piano: magari fosse così semplice. La spinta alla liberazione personale che cresce a partire dai tardi anni Sessanta - in forma come s’è detto prima politica e poi impolitica - ha comunque degli effetti politici di rilievo. Vediamo quali.
La politica “ufficiale” affronta quella spinta con «moderazione ragionevole» (l’espressione è dello storico britannico Arthur Marwick): ossia, dove possibile, cede alla pressione. Sia sul piano retorico: il socialdemocratico Willy Brandt, Cancelliere tedesco dal 1969, promette un «nuovo inizio», e di «osare più democrazia»; il liberale Valéry Giscard d’Estaing, Presidente francese dal 1974, dichiara di volere una «democrazia liberale avanzata». Sia - e soprattutto - sul piano pratico: gli anni Settanta, com’è ben noto, sono caratterizzati da un processo imponente di ampliamento dei diritti individuali, sia civili sia sociali, in tutte le democrazie avanzate.

Il desiderio diffuso di liberazione individuale e la scelta della politica “ufficiale” di soddisfarlo generano però dei contraccolpi. Tanto più che i diritti sociali costano, e che negli anni Settanta giunge al termine la straordinaria crescita economica postbellica. Politologi come Michel Crozier, Daniel Bell, Samuel Huntington cominciano a chiedersi quanto a lungo possa sostenersi una democrazia se l’elettorato chiede troppo. Al di là e al di qua dell’Atlantico studiosi e intellettuali come Christopher Lasch, Richard Sennett, Gilles Lipovetsky denunciano l’involuzione dell’“individuo desiderante” in un “narcisista” incapace di distinguere fra se stesso e la realtà; disconnesso da un passato e incapace d’immaginare un futuro; sovreccitato, autoreferenziale, e in definitiva profondamente infelice. Da grande scrittore e giornalista, nel 1976 Tom Wolfe fornisce un ritratto straordinario di questo narcisista in “The “Me” Decade”, Il decennio dell’Io. In Italia Augusto Del Noce, Nicola Matteucci, Gianni Baget Bozzo, fra gli altri, evidenziano i limiti e le contraddizioni della società «permissiva» o «radicale».

Di fronte al montare della “democrazia del narcisismo”, quella stessa politica “ufficiale” che ha ceduto alla pressione individualistica deve cominciare a tirare il freno. Non può però, o non vuole, affrontare direttamente gli elettori, prendendosi la responsabilità di dir loro con chiarezza che la festa è finita, e correndo magari il rischio di dover pagare il prezzo della propria sincerità. Fa allora in modo che i cittadini si trovino di fronte dei muri di altra natura, tecnica e non politica: le banche centrali, le autorità indipendenti, le istituzioni economiche internazionali, il sistema monetario europeo. E naturalmente - soprattutto a partire dal 1979-80, con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan - il mercato. Che è un Giano bifronte straordinario: da un lato, col moltiplicarsi dei consumi, soddisfa il narcisismo; dall’altro gli impone la dura disciplina della concorrenza. Reagan guarderà soprattutto alla faccia della gratificazione; Thatcher a quella del rigore: «l’economia è il metodo», dirà, «l’obiettivo è cambiare l’anima della nazione».

Sia quando cede alla richiesta di maggiore emancipazione individuale, sia quando demanda alle tecnocrazie o al mercato il compito di arginarla, tuttavia, la politica sega il ramo sul quale sta seduta. La politica infatti è azione collettiva: ma come potrà mai ricomporre la società individualistica che essa stessa contribuisce continuamente a frammentare? E la politica è esercizio del potere: ma quale potere potrà mai esercitare, se ha contribuito a trasferirne una buona parte a organismi non politici, nazionali e internazionali? A partire dai tardi anni Ottanta, poi, nelle democrazie avanzate la destra e la sinistra convergono in una sorta di “grande centro” ideologico fatto di diritti (il contributo della sinistra) e di mercato (il contributo della destra) - ma incardinato in tutti i casi sull’individuo. Anche il conflitto politico, così, deperisce. E gli elettori cominciano a chiedersi quali siano le loro reali possibilità di scelta.

Alcuni studiosi - Ronald Inglehart, Ulrich Beck, Anthony Giddens - già dalla metà degli anni Settanta hanno cominciato a immaginare la ricomposizione politica del caleidoscopio individualistico: individui “riflessivi”, ossia capaci di generare da se stessi la propria identità, avrebbero costruito liberamente e creativamente delle nuove aggregazioni collettive. Ora, è vero che da ultimo, nella nostra epoca, la politica si sta ricomponendo. Solo, lo sta facendo in una maniera ben diversa da come immaginavano quegli autori. Altro che individui riflessivi: cittadini convinti che la politica della liberazione individuale non li protegga più da un mondo sempre più complesso e incontrollabile si rifugiano nell’ultima ridotta identitaria possibile - l’identità del luogo di nascita -, aderendo a partiti sovranisti o localisti. Oppure costruiscono un’identità collettiva nuova, ma negativa, mescolando finalità e provenienze assai diverse in un calderone comune: il rancore contro quelli che a loro avviso dovrebbero proteggerli, e non lo fanno.

Il conflitto politico rinasce così fra Clinton - figlia del Sessantotto, per tanti versi - e Trump. Fra l’establishment politico che ha gradualmente preso forma negli ultimi cinquant’anni, il “grande centro” individualistico dei diritti e del mercato, e che non riesce a mantenere la promessa universale di emancipazione individuale dalla quale trae la propria legittimità. E quelli che, per ragioni economiche o culturali, denunciano il fallimento di quel grande centro e lo combattono.

Per parte loro, questi ultimi non sanno davvero quali alternative proporre - e quando ne propongono, sono o assai poco desiderabili o del tutto irrealistiche. Siamo sicuri però che questa mancanza di realismo sia un ostacolo sulla via del successo politico?

Uno che delle contraddizioni della modernità qualcosa aveva pur capito, Fëdor Dostoevskij, già un secolo e mezzo fa scriveva: «“Abbiate pazienza, - vi grideranno, - rivoltarsi è impossibile; è come due per due fa quattro! La natura non vi consulta; non gliene importa nulla dei vostri desideri e se vi piacciano o non vi piacciano le sue leggi …”. Signore Iddio, ma che me ne importa delle leggi naturali e dell’aritmetica, quando per qualche ragione queste leggi e il due per due non mi piacciono? S’intende che questa muraglia non la sfonderò col capo, se davvero non avrò la forza di sfondarla, ma nemmeno l’accetterò, solamente perché ho una muraglia davanti e le forze non mi sono bastate». In fondo, è un altro modo per chiedere l’impossibile.

gorsina@luiss.it