Il documentario "13 novembre: Attacco a Parigi", dei fratelli Gédéon e Jules Naudet, ricostruisce gli attentati dell'Isis che insanguinarono la capitale francese nel 2015. Attraverso la voce dei superstiti, ostaggi e soccorritori. Che davanti alla telecamera liberano le emozioni. Senza mai nominare i terroristi. Colloquio esclusivo con i registi francesi

A Parigi c’è il sole, tredici gradi al mattino, una bella giornata, merce rara in autunno. Frammenti di un notiziario radiofonico, gli aggiornamenti meteo, la panoramica dall’alto della Ville Lumière, la canzone “Il est cinq heures, Paris s’éveille” di sottofondo, grande classico di Jacques Dutronc. In serata è in programma al Bataclan il concerto del gruppo californiano Eagles of Death Metal, centinaia di fan in fibrillazione. Un giorno come un altro, ma solo in apparenza.

Comincia così “13 novembre: Attacco a Parigi”, documentario in tre parti di Gédéon e Jules Naudet, disponibile dal primo giugno su Netflix in tutto il mondo. La ricostruzione degli attentati messi a segno la sera del 13 novembre 2015 dai terroristi dell’Isis a Parigi - al Bataclan e in alcuni caffè - e a Saint-Denis, vicino allo Stade de France, durante l’amichevole di calcio Francia-Germania. Un bilancio di guerra: 130 persone uccise, tra cui la studentessa italiana Valeria Solesin, 28 anni, oltre 300 feriti.

VIAGGIO ALL'INFERNO

Il documentario è un viaggio all’inferno di quasi tre ore, che L’Espresso ha visto in esclusiva per l’Italia, in occasione dell’incontro dei registi francesi con un gruppo ristretto di giornalisti di diversi Paesi, a Roma. I fratelli Naudet, famosi per aver ripreso l’impatto dell’aereo contro la Torre Nord del World Trade Center, autori del pluripremiato documentario “New York: 11 settembre”, hanno scelto un registro intimista per raccontare il giorno più lungo e atroce di Parigi, trasformando la cronaca dell’orrore in una lunga seduta di psicoterapia.

Un film struggente per certi aspetti, non un’inchiesta giornalistica in senso classico. «Tenevamo molto a raccontare questa storia perché siamo nati e cresciuti a Parigi, lì abbiamo la nostra famiglia e i nostri amici», dice Jules Naudet, che come il fratello abita a New York da quasi trent’anni: «Quando abbiamo saputo degli attentati siamo andati nel panico: abbiamo subito chiamato i nostri genitori, stavano cenando non lontano da uno dei caffè colpiti. Non avevamo notizie, l’esatto opposto di quanto accaduto l’11 settembre: quel giorno i nostri genitori erano preoccupati per noi figli, è accaduta la stessa cosa a parti invertite».

IL LATO UMANO DELLA STORIA
Uno dopo l’altro, i protagonisti di “13 novembre: Attacco a Parigi” parlano davanti alla telecamera in una stanza buia, ricostruiscono lentamente i fatti, liberano le emozioni: donne e uomini sopravvissuti alle stragi, vittime e soccorritori, agenti di polizia e responsabili del Bri, le teste di cuoio francesi che fecero irruzione nella sala da concerti per liberare gli ostaggi. Le massime autorità francesi dell’epoca - il presidente François Hollande, il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve - e l’attuale sindaco di Parigi, Anne Hidalgo.

«Ogni intervista è durata tre o quattro ore, con un lungo lavoro di preparazione e un’ora di decompressione dopo, per loro è stato estenuante», racconta Jules Naudet, che aggiunge: «Abbiamo deciso di fare un documentario sulle persone che erano lì quella notte: allo stadio, nei caffè o al Bataclan. Non abbiamo intervistato i familiari delle vittime, ma solo chi era presente. È il racconto del lato umano della storia, senza immagini sensazionalistiche».

Attimo dopo attimo, nella prima parte la narrazione prende forma attraverso la voce dei superstiti, ostaggi e testimoni. Una ricostruzione minuziosa sostenuta dalla forza delle emozioni, con un pathos crescente, senza sbavature né sentimentalismi. «Era come il rumore di un martello pneumatico, ma più veloce. Una potenza e un rimbombo impressionanti», ricorda così Jean-Luc, testimone oculare, la raffica di kalashnikov davanti al bar La Belle Équipe. L’uomo abita sopra al locale: quella sera ha sentito tutto e ha visto uno dei terroristi del commando uccidere 19 persone, tra cui la compagna di Grégory Reibenberg, proprietario del locale e testimone, che ha perso anche dieci amici. Nella seconda e nella terza parte, invece, il racconto si sposta soprattutto al Bataclan. «Sentivamo grida di dolore arrivare dalla platea. Non sono credente, ma se l’inferno ha un suono è quello del kalashnikov», dice Nicolas, che si trovava nella balconata di fronte al palco. «Se uno psicologo venisse a dirmi di rimuovere ogni ricordo per eliminare il trauma, gli risponderei di no, che non voglio. Mi nutro del coraggio di chi c’era, della dignità, della volontà di combattere fino in fondo. Siamo sopravvissuti, ma siamo vivi», aggiunge Valerie.

«L'AMORE VINCE SEMPRE»
Gli ostaggi rievocano ogni istante: i cellulari degli spettatori che squillano a vuoto, le sventagliate di mitra e le vittime che supplicano inutilmente i tre terroristi islamici di risparmiarle, le esecuzioni spietate, l’odore del sangue e della polvere da sparo, i corpi ammassati uno sull’altro, l’istinto di sopravvivenza che prende il sopravvento, chi fingeva di essere morto e chi agonizzava. Eppure il documentario, che pure utilizza filmati inediti e riprese rocambolesche, non cede mai al gusto del macabro, al sensazionalismo fine a se stesso. Corre sempre su un filo sottile ed evita di cadere nella trappola dell’Isis, quella di esaltarne involontariamente le gesta.

«Abbiamo chiesto alle persone intervistate di non menzionare mai i terroristi. Ma una cosa è certa: non possiamo annientare il terrorismo con più pallottole e più esplosivo, più terrore e orrore. A rischio di sembrare naïf, quello che possiamo fare è trasmettere messaggi di amore e umanità forti e intensi. Nelle interviste prevalgono il coraggio, l’umanità, la vicinanza, l’amore. L’estraneo che ti sta accanto e ti dice: «Vedrai che alla fine ce la faremo». È un sentimento condiviso che dà speranza ai superstiti», dice Gédéon Naudet.

«C’è un solo messaggio, che non ha nulla a che fare con la rabbia o la vendetta. Un messaggio d’amore per il Paese, che può ricostruire se stesso e trovare di nuovo la vita. Anche se i terroristi lo guardassero, non potrebbero mai usarlo come propaganda», aggiunge Jules.

L’altro rischio sempre in agguato, in un film del genere, è che l’umanità sconfini nel buonismo, che la vittima porga l’altra guancia al carnefice e tutto si risolva in un’assoluzione inaccettabile. «Il confine è molto tenue. Abbiamo trascorso mesi al montaggio, osservato tutti dettagli. “È troppo lontano dalla realtà? C’è troppo pathos?”, ci siamo chiesti più volte. Ci siamo trattenuti, abbiamo sempre cercato di lasciar parlare le persone», aggiunge Jules: «Conosciamo bene Francia e Stati Uniti, cogliamo le differenze. In un documentario del genere, in America, probabilmente le persone piangerebbero di più. In questo gli intervistati hanno un modo “francese” di trattenere le emozioni».

Da quella sera sono trascorsi quasi tre anni, nel frattempo nella capitale francese l’Isis ha colpito ancora. Solo pochi giorni fa, nella zona dell’Opéra: il terrorista ceceno Khamat Azimov ha assalito cinque persone armato di coltello, uccidendo un ragazzo di 29 anni e ferendo le altre quattro. E Parigi è ripiombata nel terrore.