
La sociologa Chiara Saraceno conosce a fondo i meccanismi del sistema educativo, il mondo del lavoro, il riflesso delle diseguaglianze sulle relazioni tra generazioni, così come ha esplorato nel suo ultimo saggio, “L’equivoco della famiglia” (Laterza).
La Whittle School & Studios è una gigantesca rete globale di scuole che mira a sviluppare l’eccellenza nel campo della formazione. Cosa ne pensa?
«Si tratta di un modello di élite, che tuttavia prende molto dal sistema educativo pubblico, come già avvenuto con il metodo Montessori. Nato per colmare il divario educativo delle classi più svantaggiate, è diventato il paradigma educativo preferito dai più abbienti, soprattutto negli Stati Uniti. La Whittle School corrisponde a un’idea di società in cui i più ricchi vivono separati, come nelle “gated community”, i quartieri ricchi protetti da poliziotti armati. Un sistema che cristallizza le differenze sociali: il destino dei ragazzi, si sa, è determinato dalle famiglie in cui nascono, dal quartiere dove abitano, dalle esperienze, dalle persone che incontrano. Se anche la scuola è segregata i danni sono evidenti, perché la segregazione non produce danni solo nella parte più bassa della piramide sociale, ma anche in quella più alta. E poi è un modello su scala planetaria, altro aspetto inquietante».
Le scuole Whittle puntano su scienza e tecnologia, meno su storia, grammatica, lingue antiche. È un modello più al passo con i tempi?
«Va bene puntare sulla scienza, ma non è detto che chi esce dal liceo classico vada male a Ingegneria. Dipende dalla testa, dall’apprendimento logico, dalle vocazioni personali. È sbagliato contrapporre la conoscenza tecnica e quella umanistica. Non va bene se un umanista dice: «Non mi interessa nulla della tecnologia», e poi ne risulta totalmente dipendente. Così come è più povero un ingegnere, un fisico o un matematico che non conosce affatto la letteratura. Inoltre, non difendo le tradizioni ma mi sembra importante conoscere il luogo dove si vive, sviluppare una conoscenza storica, economica, geografica, dei conflitti. Il modello di insegnamento globale invece penalizza la storia e la letteratura, oppure le adegua allo schema angloamericano dominante».
È un caso limitato agli Stati Uniti o la spia di un fenomeno più ampio?
«Si tratta di una linea di tendenza molto diffusa a livello globale, soprattutto in America e in alcuni Paesi asiatici. Del resto gli ingegneri, si sa, sono pagati ?di più degli insegnanti di liceo. La scuola tuttavia non serve solo a preparare ?al mondo del lavoro ma a sviluppare la personalità nella sua interezza, a formare i futuri cittadini, fattori non misurabili ?dal punto di vista economico».
La scuola costa 40 mila dollari all’anno, ma nel campus di Washington su 2.500 bambini 300 avranno la borsa di studio.
«È un meccanismo che riequilibra solo in parte il divario. Certo, la meritocrazia è più democratica del censo, ma chi vive in un ghetto non ha le stesse chance di sviluppare e mostrare le proprie capacità rispetto a chi abita in un quartiere residenziale. L’accesso alle borse di studio resta difficile».
In Italia l’ascensore sociale è bloccato, anche dal punto di vista dell’istruzione. Un tempo la scuola pubblica riusciva ?a compensare le diseguaglianze di partenza, adesso le scelte dipendono ?da scolarità, professione e titolo ?di studio dei genitori.
«Tra i Paesi Ocse, l’Italia purtroppo è il più fermo. In realtà, dal punto di vista della mobilità sociale negli ultimi cinquant’anni non è cambiato granché, ma il contesto risulta profondamente diverso: i primi decenni del dopoguerra sono stati attraversati da un profondo mutamento del mercato del lavoro: i figli dei contadini diventavano operai, i figli degli operai impiegati. Oggi questo non avviene più, e le posizioni alte sono molto diminuite».
Di recente lei si è espressa contro l’abolizione delle prove Invalsi, chiedendosi se è un bene che ci si privi di uno strumento che consente di monitorare le diseguaglianze nell’offerta educativa in Italia. In molti però considerano l’Invalsi uno strumento performativo, troppo all’americana...
«Sarebbe importante disporre di uno strumento in grado di dire se una certa classe, in un certo luogo d’Italia, raggiunga le competenze cognitive previste. E di mostrare le criticità e le carenze, anche del personale didattico.
Lo scopo del test Invalsi, infatti, non consiste nel misurare la capacità di rispondere ai test. Purtroppo è un meccanismo deviato, così come in America, dove ci sono scuole che si arricchiscono per preparare all’esame ?di ammissione all’università».