
Diviso in capitoli dai titoli beffardi, scandito dalle spiegazioni non meno sarcastiche dei titolari dello studio legale al centro dello scandalo finanziario, Mossack e Fonseca, sullo schermo gli impagabili Gary Oldman e Antonio Banderas, il film trasforma infatti l’inchiesta da Pulitzer di Jake Bernstein, “Secrecy World”, in una black comedy a cavallo fra Brecht e il teatro dell’assurdo che salta fra i continenti lasciandosi dietro una scia di soldi, sangue e soperchierie. Perché in questo mondo fatto di società fantasma, scatole cinesi, prestanome più o meno volontari, nulla è certo, tutto è reversibile. E nessuno è innocente.
Lo scandalo dei Panama Papers - rivelato in Italia dall’Espresso - non ha smascherato una banda di criminali: ha messo a nudo il cuore di un sistema che arricchisce il famoso 1 per cento della popolazione ma coinvolge in ruoli a geometria variabile un numero ben più ampio di persone. In un contagio insieme esilarante e sinistro che Soderbergh esplora seguendo la crociata di Meryl Streep, anonima vedova-coraggio decisa a incassare l’assicurazione sulla vita del marito. Salvo scoprire che la polizza, passando di società in società, si è dissolta nel nulla, e che gli uffici in cui sogna di irrompere non esistono, esiste solo una cassetta postale.
Ma intanto, fra delitti in Cina e confessioni a sorpresa dello stesso regista, mentre Mossack e Fonseca, sempre scintillanti nelle più folli “mises” vacanziere, discettano sulle mille forme del denaro, ci ricordiamo che qualcuno (per esempio la giornalista maltese Daphne Caruana) ha pagato con la vita la sua curiosità. E il film di Soderbergh, frammentato e pirotecnico come un varietà, per un attimo diventa uno specchio. Deformante ma neanche troppo.
“Panama Papers ”
di Steven Soderbergh
Usa, 96’