Scene
Il clima sbarca a teatro. E sul palcoscenico c'è la fine del mondo
Scorie e rifiuti, aria inquinata, boschi minacciati dalla speculazione edilizia. L’ambiente è sempre più protagonista delle scene. E dalle parole, spesso, si passa ai fatti
Ben prima che la giovane e determinatissima Greta scuotesse le coscienze del mondo, un altro scandinavo metteva in corto circuito ecologia e profitto. Era il 1884 e il norvegese Henrik Ibsen scriveva un dramma in cui il protagonista, il dottor Stockmann, cerca di convincere gli abitanti di un piccolo centro termale che le acque spacciate come salubri sono in realtà inquinate. Cosa scegliere? Il guadagno della stagione balneare o la salute? Il “Nemico del popolo” (recentemente in scena con Massimo Popolizio al Teatro di Roma e in tournée) è solo uno dei testi in cui il teatro s’interroga sul rapporto uomo natura.
C’è chi ha fatto della battaglia per l’acqua un terreno d’azione in cui non mancano effetti reali. È il caso del lucano Ulderico Pesce che racconta: «Mio padre, sindacalista della Cgil, mi raccomandava di fare sempre qualcosa di utile. Ho scritto quattro spettacoli sull’ambiente: non solo per sensibilizzare il pubblico ma per avere ricadute concrete. Con “Storie di Scorie”, nel 2003, abbiamo affrontato il tema dell’acqua radioattiva che si scaricava nel Po, nella Dora Baltea o in mare. Con il giudice Nicola Maria Pace avviammo una raccolta di firme per chiudere la condotta radioattiva che scaricava nello Ionio. A fronte di 20mila firme, l’allora governo Berlusconi stanziò 780mila euro e lo fece togliere. Ora sto recitando “Petrolio”, un viaggio da Pasolini alla “Lucania saudita”: si parte dal romanzo per parlare dello scempio ambientale in Basilicata e nel Delta del Niger. Abbiamo già 10mila firme per bloccare nuove estrazioni. Ne va della salute delle persone».
Forse è questa la lezione che può venire dal teatro sulle questioni ambientali. Guardando al recupero, al rinnovamento ambientale e umano, si muovono in molti: sono tante le iniziative che coniugano clima e teatro, strutturando pedagogie mirate a un pubblico giovane o a lavori di impegno sociale che puntano al coinvolgimento.
Precursore dei tempi è stato quel genio di Giuliano Scabia: raffinato intellettuale, drammaturgo, scrittore, si inventò un “teatro vagante” che, sin dagli anni Ottanta, portava il “poeta-albero” a girovagare in mezzo ai boschi emiliani, nello stupore dell’incontro con la natura. Forte dell’esperienza rivoluzionaria di Marco Cavallo, la parata organizzata con Franco Basaglia e i degenti dell’Ospedale di Trieste, l’ultraottantenne Scabia, combattente feroce e delicato della scrittura, non ha mai smesso di camminare e di riflettere sul rapporto uomo-ambiente, fino a immaginare la recente, allegorica “Commedia della fine del mondo” ossia la estinzione del popolo dei “Dinosauri”, tanto simile alla specie umana.
Altra paladina di un “teatro ambientale” è Lorenza Zambon, attrice, autrice, militante. Dalle sue Langhe, si è impegnata in esperimenti di “ibridazione” del teatro con la sua passione per le piante, i giardini, i paesaggi. Facendo tesoro dell’opera del “giardiniere-filosofo” Gilles Clément, Zambon ha pensato lavori da rappresentare in parchi, giardini, boschi, campagne oppure di portare frammenti di natura vivente all’interno di spazi non tradizionali.
In sintonia è lo storico O’Thiasos-Teatro Natura di Sista Bramini: il gruppo è nato nel 1992 per indagare il rapporto tra arte drammatica, coscienza ecologica, ambiente naturale. «Uno spettacolo – spiega Bramini – che nasce lungo un torrente, in un bosco, sulla cima di una collina, deve lasciarsi ispirare dal posto e cercare significati e azioni in relazione con esso. La natura diventa un partner vivo».
Così si sono moltiplicate le proposte di spettacoli itineranti, che attraversano città, periferie, campagne: come quelle “conversazioni peripatetiche” guidate da un agitatore culturale come Carlo Infante, sorta di brainstorming condiviso; oppure i febbrili racconti metropolitani del duo Cuocolo-Bosetti, che svelano volti nascosti delle città e delle anime. Simili proposte hanno un tale successo da diventare di moda: ormai, se non fai almeno dieci chilometri, come spettatore non vali nulla. Ma tant’è, il teatro si insinua nei meandri urbani e nei tratturi, attraversa sentieri e guada fiumi, abbraccia alberi e scala montagne. E ovviamente, il contesto determina il testo: muta lo spettacolo se vissuto tra le rocce o in una radura.
Accade ad esempio a Stromboli, dove è giunto alla settima edizione il bel Festival di Teatro Ecologico, interamente “a spina staccata”, ossia senza energia elettrica, illuminato dal sole o dalle stelle, in vari luoghi dell’isola e sempre a “disinquinamento acustico”.
A Lecce, Aradeo e in altri splendidi borghi del Salento il Teatro Koreja organizza da anni il festival “Il teatro dei luoghi” che, oltre a far vivere il territorio, non dimentica il grave problema della Xylella, tenendo alta l’attenzione sul tema. Va detto che in Puglia la scena si rivela particolarmente sensibile: basti pensare al lavoro fatto sul territorio del quartiere Tamburi, davanti alle ciminiere dell’Ilva, dal CrestTeatro diretto da Clara Cottino: un presidio politico e culturale sin dal 1977. Oppure, poco lontano dalla zona industriale tarantina, a quello della giovane compagnia Clessidra, guidata da Erika Grillo, che mette assieme attori, architetti, urbanisti, scenografi, fotografi e abitanti della piccola Chiatona. Ogni anno interviene su un tema che riguarda il disastro del luogo: la condizione del mare, dei boschi minacciati dalla speculazione edilizia, i rifiuti che invadono spiagge e dune, gli edifici abbandonati come le strutture alberghiere in disuso.
Tra i festival dal forte impianto paesaggistico, oltre al celebre “La luna e i calanchi”, dedicato alla paesologia da Franco Arminio, vale la pena citare almeno i brianzoli “Giardino delle Esperidi”, e il contiguo “L’Ultima luna d’estate” diretto da Luca Radaelli che dal 1997 muta in palcoscenici naturali il Parco di Montevecchia e della Val Curone. Mentre ad Albenga, in Liguria, la compagnia Kronoteatro ha impiantato il proprio festival nelle serre: «Con “Terreni Creativi” – racconta il regista e attore Tommaso Bianco – da dieci anni portiamo il meglio del teatro italiano all’interno delle aziende agricole dell’entroterra di Albenga. RB Plant, TerraAlta, l’Ortofrutticola e BioVio sono le aziende che si occupano di import-export di piante aromatiche, di produzione vitivinicola ed agricola in generale, prestano i propri spazi e le maestranze sposando il progetto e contribuendo alla valorizzazione dell’entroterra ingauno e del Ponente ligure tutto».
Ma si può scegliere la natura in modo ancor più radicale, come ha fatto il Teatro delle Ariette, che dal 1989 si è stabilito in Valsamoggia, coniugando azienda agricola e spettacoli che parlano di cibo, di terra, di incontri tra persone in case o in mezzo ai campi, mescolando racconto autobiografico e vita contadina.
Quel che si avverte, in generale, è che quando il teatro si confronta con l’ambiente o con i rifiuti, mette assieme scarti materiali e “scarti” umani: la cura per la biodiversità si declina insomma tra persone e territorio, in quella che il regista napoletano Davide Iodice ha definito «l’equazione tra rifiuto solido ed esistenziale» e che ha connotato il suo lungo percorso artistico.
«Vengo dalla periferia orientale, considerata, come tutte le periferie del mondo, il posto dove sversare i rifiuti o dove accumulare le problematiche dei raggruppamenti umani», racconta Iodice: «Sono “slums”: San Giovanni a Teduccio, Ponticelli, Barra. La mia era una famiglia proletaria che faceva parte di quel mondo. Non posso dimenticarlo». Da poco, Iodice ha presentato uno spettacolo di rara bellezza e poeticità, “La luna”, creato pensando a quei “rifiuti”: «Il progetto è stato rifiutato più volte, esso stesso è uno scarto. Immaginavo di farlo alla discarica di Chiaiano, in piena emergenza “monnezza”, cercando un sovvertimento dei luoghi comuni. Volevo fare una “discarica poetica”, ma il tema però era troppo scottante. L’anno scorso, quando la problematica sembrava superata, almeno al centro di Napoli – in periferia è cosa diversa – sono tornato a pensarci. E il problema delle “ecoballe” è diventato delle “egoballe”, con un’installazione che raccoglie sedimenti esistenziali».
Sembra la “Venere degli Stracci” di Pistoletto: dai rifiuti sbocciano bellezza, storie, ritratti umani. «Ho chiesto alla cittadinanza – continua Iodice – di portarmi oggetti legati a momenti particolari della propria esistenza, di cui volevano liberarsi. Ho filmato le testimonianze, gli oltre 250 reperti che ci hanno donato e sono diventati materia di lavoro alla “Scuola elementare del Teatro”, che tengo ormai da anni negli spazi dell’ex Asilo Filangeri occupato». Ecco dunque la poetica del “recupero”, del riciclaggio sentimentale dei rifiuti.
«Cerco la bellezza residuale delle persone. È anche un discorso politico, in un rapporto di effettivo sostegno, anche amicale, per gli homeless», continua Iodice: «Nel tempo ho affrontato anche collettività apparentemente senza problematiche: ne è emerso, invece, un quadro impregnato di instabilità. Molti ci hanno portato psicofarmaci di cui evidentemente volevano liberarsi, segno di un’inquietudine, di una sofferenza diffusa. In questa risposta trovo il senso, la necessità di affidare la sofferenza, la propria fragilità alla collettività: certo, noi siamo una collettività di teatranti, persone che possono affrontare e elaborare la sofferenza altrui. Ce n’è bisogno. L’ho capito quando un signore, vedovo da venticinque anni, mi ha consegnato l’atto di morte della moglie, tenuto nel cassetto. Mi ha detto: «se questo dolore può trasformarsi in arte, allora acquista senso. Il teatro è antidoto e veleno. È quel che cerchiamo di fare con gli scarti: infettarci e tentare una trasformazione».
In “Zio Vanja”, Cechov fa dire al suo Astrov: «Quando cammino nelle foreste dei contadini che io ho salvato dalla distruzione, o quando sento stormire il giovane bosco che ho piantato, sento che il clima è un po’ anche nelle mie mani, che se tra mille anni l’uomo sarà felice, lo dovrà un po’ anche a me. Quando pianto una betulla e poi la vedo germogliare e dondolare al vento, la mia anima si colma di orgoglio».