Nell’Italia piegata in un lockdown variabile, il dovere di tutti è moltiplicare comportamenti responsabili e solidali per fronteggiare insieme un incubo globale. Ma questi lunghi mesi di sofferenze, sacrifici individuali e collettivi, obbligano ciascuno nel suo campo – mentre pretendiamo il massimo da chi deve contrastare l’emergenza – a dare contributi di idee per progettare il futuro e ricostruire, migliorandolo, l’ordito delle nostre comunità. La cultura, nella sua accezione più ricca e articolata, è una leva da cui non si potrà prescindere nella sala-macchine della rinascita. Per “non sprecare” la crisi, occorre pensare subito come questa infrastruttura civile e spirituale possa, con un salto quantico di consapevolezza, uscire rinnovata dalla pandemia.
Oggi musica, musei, teatri, auditorium, cinema sono in quarantena. I protagonisti e il pubblico delle mostre e dei concerti, gli artisti dei palcoscenici e dei set, i professionisti e i tecnici si trovano in isolamento e i circuiti pubblici e privati che ne hanno visto i talenti giacciono in terapia più o meno intensiva. Volutamente uso la terminologia diventata abituale, purtroppo, riguardo a chi ha contratto la feroce malattia e ha pagato prezzi altissimi, irreparabili per decine e decine di migliaia di italiani. Il mio non è un artificio retorico, un paragone indelicato; è un tentativo di definire efficacemente la ferita che stanno subendo i diversi ambiti di espressione artistico-culturale. Una ferita profonda, che richiederà tempo e pazienza per esser rimarginata. Una ferita da curare con medicinali mirati, scelte lungimiranti e innovative.
Per la seconda volta si sono serrati i cancelli, abbassati i sipari, spente le luci in tutto il territorio nazionale simbolicamente con un colore rosso omogeneo per la cultura. Una misura adottata con rammarico, di cui si comprendono le ragioni sapendo di partecipare a un grande sforzo comune, per un interesse prioritario. Va riconosciuto al ministro Franceschini di aver progressivamente varato cospicui interventi di sostegno per le istituzioni culturali e le molteplici tipologie di lavoratori coinvolti. Sono atti importanti. Un segno che non si tratta più l’economia della cultura come una cenerentola e si intende invece riparare i danni e proteggere enti e operatori stremati da un periodo buio senza precedenti. L’occasione è unica. Proprio oggi che dall’America giungono note di speranza, torna alla mente Roosevelt quando volle includere (al prezzo di polemiche durissime) un massiccio investimento a sostegno dell’arte nel perimetro del New Deal lanciando nel 1935 il Federal Art Project: la più estesa operazione di welfare estetico-culturale mai tentata in una democrazia.
È sul modello di quell’ambizione strategica che oggi, nel contesto europeo di Next Generation e della nuova “Bauhaus“ proposta da Ursula von der Leyden, il governo può delineare una visione progettuale di lungo respiro per la cultura italiana. Però il farmaco finora progettato, sperimentato o già somministrato al mondo della produzione culturale in Italia e in Europa manca ancora, a mio avviso, di una componente importante. Finora ha agito tipicamente sul lato della offerta, sul sostegno necessario a chi produce. Ma la cura di cui c’è bisogno dopo la pandemia deve realizzarsi anche sul lato della domanda, del contrasto alle nuove povertà culturali e spirituali, del “bisogno” di libertà e bellezza che innerva e deve rafforzare l’identità del paese. Una cura da considerare estensione strategica del welfare e che riconosca nel consumo di cultura un diritto primario. Sì, affinché il mondo dell’intuizione artistica e della produzione culturale si riprenda e si sviluppi come un investimento a lungo termine, occorre agire strutturalmente e con decisione (superando la logica dei bonus) sostenendo i consumi culturali di cittadini ulteriormente impoveriti dalla crisi. La mia proposta è curare l’Italia agendo anche sulla leva fiscale: rendendo deducibili, ai fini del calcolo d’imposta sul reddito delle persone fisiche, le spese di accesso (ticket, abbonamenti ecc.) ai tanti luoghi – teatri, cinema, auditorium, musei, istituzioni – dove si riceve, si produce, si scambia cultura. Proprio come facciamo per le nostre spese farmaceutiche. Lo stesso meccanismo diretto, la segnalazione all’Agenzia delle Entrate tramite tessera sanitaria, si può replicare per quel consumo sociale di arte, musica, parole, immagini che è da sempre uno speciale salva-vita e a maggior ragione varrà quando cominceremo a emergere dall’incubo Covid-19.
So bene che non è facile tracciare la linea. So bene quali resistenze il ministro della Cultura può incontrare nell’amministrazione fiscale. Ma ora ci sono le condizioni per un coraggioso salto quantico. Tra i lasciti di questa crisi non può mancare una consapevolezza “aumentata” sulla libertà, la bellezza e perfino la gioia che l’accesso a ogni forma artistica può offrire. Nella sala-macchine della ripartenza bisogna progettare già adesso il contrasto a tutte le povertà: quella economica certo ma anche quella educativa e culturale. La deducibilità fiscale delle spese culturali è leva imprescindibile di una moderna visione del welfare, flessibile e trasparente, in grado di fornire un “farmaco” antidepressivo capace di accendere immaginazione e desiderio e responsabilizzare chi la cultura produce sull’ impatto sociale che genera. E magari così facendo, sostenendo il potere di scegliere, potrebbero sorprenderci le nuove gerarchi culturali. Insomma, si studino compatibilità e criteri, si fissi un congruo tetto annuo di spesa deducibile per persona, si esca definitivamente dall’idea che la cultura sia un optional, un bene, se non superfluo, secondario. L’allargamento e la crescita della domanda, grazie a un meccanismo certo e permanente di detrazione, attiverà un circolo virtuoso per la conservazione e l’arricchimento del patrimonio, per i percorsi educativi e formativi, per la produzione e la diffusione di musica, arte, teatro e cinema e naturalmente per il tessuto imprenditoriale collegato e il mecenatismo.
L’universo cultura è un ristoro senza scadenze. Al MAXXI, museo nazionale dedicato alle arti del XXI secolo, abbiamo spalancato gallerie e archivi nello spazio senza confini dei canali social. Già nel primo lockdown il museo digitale è stato manifestazione tangibile del museo reale con la produzione di 130 video-clip originali e dirette streaming che hanno raccolto 14 milioni di contatti. Adesso ci regoliamo ugualmente: artisti, critici e curatori svelano la nostra collezione d’arte, architettura e fotografia e le mostre in corso, mentre scrittori e scienziati, economisti e filosofi ci accompagnano dentro i dossier caldi dell’agenda globale. Con il nostro palinsesto #nonfermiamoleidee lasciamo entrare lo sguardo del visitatore, facciamo circolare la sua mente nel laboratorio-MAXXI e ne lasciamo uscire i fermenti, le intuizioni degli artisti, le stimolazioni a un pensiero critico. Chissà se sotto l’albero natalizio potremo avere giorni di relativo sollievo e la riapertura al pubblico per portare lo spirito liberatorio e visionario dell’arte a famiglie provate da un anno così duro. Sarebbe in ogni caso un gran dono all’Italia e ai suoi cittadini sapere che il consumo di cultura può entrare nelle fibre vive del nostro futuro ed esser riconosciuto tra i farmaci buoni, ampiamente sperimentati, che aiutano a curarci.
Giovanna Melandri è presidente della Fondazione MAXXI