Impegnata. Irriducibile. Provocatoria. La pensatrice ebrea tedesca, che negli Stati Uniti trovò rifugio e nuovi stimoli, non può essere annoverata tra le voci del femminismo. Ma le sue riflessioni sugli inganni della politica sono sempre più attuali

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Camminavamo per le vie di Marburgo, quando Gadamer d’un tratto si fermò e mi chiese: «Come si chiama quella mia compagna di studi che poi è andata in America, quella che ha parlato di banalità del male?». «Arendt», risposi. Sapevo che alla sua età si possono avere ricordi vividi, mentre i nomi sfuggono. «Arendt, Arendt! … Hannah», ribadì. E poi cominciò a raccontare di quegli anni trascorsi lì, all’Università di Marburgo, dal 1924 al 1928. Erano insieme nella stessa aula i futuri protagonisti della filosofia del Novecento, gli allievi di Martin Heidegger, raccolti ad ascoltare le sue lezioni su “Essere e tempo”. Solo Arendt andò via; si trasferì a Heidelberg per seguire Karl Jaspers.

S’interrompeva così – ma non finiva! – la storia tormentata che l’aveva legata al suo maestro. Heidegger scelse il rifugio della riflessione ritirandosi nella Foresta Nera; alla tempesta dell’amore aveva preferito la tempesta della filosofia. Gadamer scuoteva la testa: «No, quella storia non poteva andare». Era come se riaffiorassero in lui l’ammirazione e la gelosia che aveva provato per quella compagna di studi più giovane di sei anni, orgogliosa, intelligente, elegante. «Hannah prese il treno per Heidelberg». Da allora immagino quella ragazza che viaggia così sola, ferita e tuttavia incrollabile, affranta e tuttavia risoluta. Quella ragazza della filosofia, che rivendicava la sua provenienza dall’estraneità e si avviava verso terre incognite, è stata ed è un modello per tante donne.

Se lo avesse saputo! Eppure, lei non può essere annoverata tra le voci del femminismo. Semplicemente perché non ha scritto nulla su quei temi. Il che non impedisce che alcune sue riflessioni, come quella sulla nascita, non vengano riprese e sviluppate. Arendt scrisse indirettamente di sé, con quel riserbo che la contraddistinse, raccontando la storia di un’altra ebrea, Rahel Levin Varnhagen, indifesa e ribelle che, all’esordio della modernità, aveva tentato la via dell’emancipazione nei salotti berlinesi. Il naufragio non smise mai di minacciare l’esistenza della “piccola Levin” che, da virtuosa della passività, lasciava che la vita la colpisse, «come il cattivo tempo chi non ha l’ombrello».

Pur apprezzandola, Hannah tra le righe la guarda con un certo sdegno, perché si può avere cattiva sorte, ma questo non impedisce di incamminarsi verso il sole. Arendt cerca un nuovo ruolo per sé, come donna e come filosofa, sulle barricate del pensiero, ma anche espugnando quell’asfittica e chiusa architettura dello spazio pubblico, la cittadella del potere maschile, che lei ci insegna a riconsiderare. E corre allora il rischio di esporsi, di accedere finalmente alla politica. Il che vuol dire prendere continuamente parte, senza per questo entrare in un partito. Arendt ha sempre smentito ogni appartenenza e, in fondo, quella parola non le piaceva. Si sentiva a casa solo nella lingua. «Parlo per me». Aveva eletto a suo motto “Selbstdenken”, pensare autonomamente, senza appigli, senza ringhiere né appoggi.

Proprio per questo era un personaggio scomodo. Negli atenei americani diventò famosa la sua verve polemica, quella capacità di combattere fino all’ultima sillaba, senza indietreggiare e, anzi, attaccando. Parlava con timbro proprio, ma per difendere cause altrui. Perciò non era disposta a cedere. Era contraria, si opponeva – discuteva, provocava, litigava. E con coerente tenacia – instancabile e irriducibile – sopportava le conseguenze degli innumerevoli litigi, di quelle rotture mai sanate.

Sarebbe difficile immaginarla oggi in un talk show dove, incurante dell’opinione pubblica, punterebbe subito l’indice contro chi lascia naufragare i profughi in mare, e denuncerebbe l’ipocrisia di coloro che, mentre sostengono la necessità di salvare le vite, teorizzano i confini chiusi o semichiusi accattando internamenti e respingimenti. Arendt è stata la prima a scorgere nei profughi quella «schiuma della terra» che fluttua tra gli Stati-nazione e che, impunemente calpestata, non avrebbe smesso di crescere. Nei senza-patria, negli immigrati, presi tra le frontiere nazionali, considerati rifiuti «superflui», ha indicato la «avanguardia dei popoli», in grado di preludere, nella loro spaesatezza, a un futuro assetto mondiale, a una nuova comunità a venire.

Una filosofa? O una politologa? Arendt si è sempre schermita. Ma il suo rapporto con la filosofia è molto stretto. Negli anni Trenta aveva vissuto quel risveglio traumatico che non si sarebbe mai concessa di dimenticare: il nazismo era piombato nelle aule universitarie dove si coltivava il pensiero più raffinato. L’intellighenzia ebraica della Germania, l’avanguardia della sinistra, si era fatta intrappolare. Gli intellettuali non avevano previsto che la democrazia sarebbe caduta nelle mani di un movimento minoritario e non erano stati in grado di combatterlo. Jaspers l’aveva rassicurata: «Passerà, passerà».

E che dire poi dell’adesione di Heidegger al partito nazista? Per lei era la bancarotta di un pensiero che, confinato ai limiti accademici, non aveva saputo leggere la realtà. Perciò quella di Arendt è stata una filosofia con una dichiarata vocazione politica, capace di portare alla luce i problemi contemporanei, di esaminarli con rigore e radicalità. A lei si deve un nuovo inventario della filosofia. Concetti come “totalitarismo” o “banalità del male” fanno parte del nostro bagaglio culturale.

Questo non vuol dire che non siano controversi. L’equiparazione dei due “totalitarismi”, cioè del comunismo sovietico e del nazismo, è una tesi che, nata nell’epoca della guerra fredda, viene molto criticata. Non si può confondere il progetto con la corruzione del progetto. Il nazismo è stato il progetto di una perversione portata a compimento nello sterminio del popolo ebraico. L’ideale di giustizia del comunismo, che ha ispirato donne e uomini, non può essere ridotto allo stalinismo.

Anche la banalità del male continua a essere un tema caldo. Non convince più il ritratto di Eichmann come prototipo del “burocrate”. Se nella sua “scandalosa stupidità” era solo la rotella di un ingranaggio, perché allora condannarlo? È la domanda che solleva chi sottolinea i motivi ideologici che hanno mosso l’architetto della Shoah. Ma la banalità del male va oltre quel processo ed è grazie alla riflessione di Arendt che oggi la disobbedienza civile, assente ingiustificata durante il nazismo, è tornata alla ribalta della cronaca. Assenza di giudizio, ripresa dei luoghi comuni, automatismo della parola - i mostri dell’obbedienza restano un pericolo. E i nuovi disobbedienti non sono temibili fuorilegge, ma cittadini esemplari alla cui audacia si deve la democrazia.

Arendt ha contribuito, come altri heideggeriani, a decostruire le parole irrigidite e a sfatare vecchi miti. A cominciare dalla Verità con la maiuscola. Conta più l’amicizia o la verità? Non ha dubbi chi è convinto che esista una verità assoluta, sciolta da ogni contesto. Arendt risponde invece che conta più l’amicizia. Perché è nei legami con gli altri che si tesse la verità. Sta qui la contingenza della politica, che non è matematica né scienza, ma esercizio quotidiano di essere-insieme, tanto più difficile nel mondo globalizzato. Sarebbe perciò sbagliato continuare a identificare i confini della politica con quelli dello Stato.

Come definire Arendt? Una liberale? O un’anarchica? Senza tentennamenti lei ha sempre indicato le esperienze in cui riteneva realizzata la comunità politica a cui guardava: la Comune di Parigi, i Consigli operai del 1918, la rivoluzione ungherese, il ’68. Meglio rinunciare per lei alle etichette. È però un peccato che, a parte qualche eccezione, la sinistra in Italia, segnata da un marxismo dogmatico, non abbia saputo ancora confrontarsi davvero con questa apolide del pensiero.

Arendt ha riflettuto più di ogni altro sulla crisi della politica e sulla fragilità della democrazia. Il totalitarismo non è una vecchia forma di tirannia, ma una forma nuova di governo che si produce dalla sfiducia nella politica ridotta ad amministrazione. Cosa avrebbe detto oggi di fronte all’antipolitica di Trump? È una singolare coincidenza che proprio in questo periodo dal suo inesauribile archivio sia emersa una lettera che il senatore Joe Biden le scriveva nel 1975 per dirle che aveva apprezzato un suo articolo sulla menzogna in politica e per chiederle il testo di una conferenza tenuta il 20 maggio a Boston.

Si tratta dell’ultimo saggio, scritto sull’onda dello scandalo Watergate, in cui Arendt denuncia l’«aberrazione» di una politica agitata e confusa che vuol far credere di risolvere i problemi reali con «astuzie e inganni» limitandosi solo a rinviarli. È qui che potrebbe celarsi un rischio totalitario. Proprio questo è allora il suo testamento per l’America del dopo Trump - ma anche per l’Europa che verrà.