Com'era bella la tv vista con gli occhi di Beniamino Placido
Zigzagava tra Shakespeare e Pippo Baudo. Citava Michel Platini e l’Ecclesiaste. Irrideva la cultura di massa senza snobismi. La lezione caustica e intelligente del critico de La Repubblica, a dieci anni dalla scomparsa
Della cultura di massa non si era risparmiato niente: dal cinema, che aveva frequentato anche da attore in “Porci con le ali” o in “Io sono un autarchico”, ai fumetti, ai romanzoni popolari, alla radio, fino alla televisione, che occupò buona parte del suo insegnamento intellettuale. Meno surreale di Campanile, meno sarcastico di Saviane, aveva come loro la rara virtù di uno sguardo laterale verso le cose. Ma la capacità di negare la tradizione cui pure attingeva fu tutta sua e ha fatto di Beniamino Placido, scomparso dieci anni fa, un esemplare unico e, forse, irripetibile.
Raffinatissimo ma tutt’altro che chic, curioso e onnivoro, era nato nello stesso paese di Giustino Fortunato. A Roma, invece, dove si era trasferito da ragazzo, si era laureato in Lettere negli anni Cinquanta. Uomo del sud come i tanti giunti nella capitale a cercar fortuna, si sentirà presto un “meridionale imperfetto” che “forse non sa più nulla del sud” (prefazione al libro di Giovanni Russo “Il paese di Carlo Levi”, 1985). Nonostante nel ’58 diventi, per concorso, funzionario parlamentare, i suoi interessi sono altri. La letteratura americana soprattutto (ne scrive su “Studi Americani”, sul “Mondo”, per la radiotelevisione). Negli Stati Uniti ci va davvero a metà degli anni Sessanta, realizzando definitivamente quel sogno americano alimentato dai libri e dai racconti dello zio emigrato. Forse anche per questo alla fine dei ’60 lascia il lavoro di dirigente parlamentare per la cattedra di Storia americana alla Sapienza.
La vera svolta, però, giunge quando Enzo Golino lo chiama a collaborare alla nascente “Repubblica”. Inizia così per lui una lunga e straordinaria stagione durante la quale il suo magistero sarà rilevante nello svecchiare la cultura italiana. Cultura di massa e tv diventano un interesse costante, avvicinandolo a chi come Eco per primo su queste aveva prodotto una innovativa discontinuità. Come Eco anche Placido fa la tv, oltre che scriverne, come Eco si costruisce un curriculum non convenzionale, come Eco, soprattutto, viene accusato, il peccato più grave, di occuparsi di cultura bassa, per di più con gli strumenti della cultura alta. Proprio in uno dei suoi primi articoli sulla tv non esita a replicare al presidente socialista della Rai Grassi, che se la prende con i quiz, e al deputato Corvisieri, che critica “Goldrake” scrivendo che ciò che è popolare non è necessariamente diabolico, come certa cultura laica continua troppo spesso a pensare: e che pure i quiz, con la loro rassegna di tipi umani, appagano in fondo le stesse curiosità dei romanzi dell’800 (argomento che userà nel ’93 anche per parlare del “Karaoke” di Fiorello).
Nei primi anni ’80 diventa uno degli animatori del dibattito sull’effimero, sul cinema-spazzatura, sulla serialità, sull’americanismo. Ad Arbasino, ad esempio, che biasima l’uso dei vecchi monumenti per gli spettacoli dell’Estate Romana, sottolinea che «moltissime persone quest’estate hanno passeggiato tra le rovine, hanno visto il cinema o guardato la luna tra le rovine» ed è «da presumere che domani le ameranno di più e non di meno». Ai critici di Nicolini che si chiedono perché spendere per Massenzio invece che per una biblioteca, spiega che gli uomini organizzano le proprie esistenze non soltanto «secondo la logica del calcestruzzo», ma anche «per simboli, per rappresentazioni, per nuclei di emozioni».
Intanto la tv è diventata sempre più invadente, sono nate le televisioni commerciali che scompaginano l’immaginario con film, telefilm, soap opera: sono gli anni di “Dallas” e di “Dynasty”. La tv è al centro di un mutamento sociale di tale forza che Calvino nel 1984 scrive una novella nella quale si racconta di un telespettatore che si convince di potere cambiare il mondo con il telecomando. Ed è proprio adesso, siamo nel 1985, che Scalfari propone a Placido di scrivere di tv: e con lui il mestiere compie un salto di qualità e di prestigio. Dalle colonne di «A parer mio» la sua penna lascia il segno: spettacoli, varietà, film, telefilm, tg, sport, quiz, programmi culturali, tutto cade sotto la sua lente priva di qualsiasi snobismo.
Ha un metodo, il “metodo Placido” (A. Grasso), che utilizza i riferimenti più diversi, alti e bassi, a zig zag tra Shakespeare e Baudo, Freud e Biscardi, l’Ecclesiaste e Platini. Egli dimostra giorno per giorno che per spiegare i fenomeni della società e della cultura non è sbagliato ricorrere a materiali poco nobili, utili però ad aprire varchi inediti di conoscenza. La sua rubrica diventa subito qualcosa di più che una critica ai prodotti del piccolo schermo. È una fonte inesausta di intelligenza e di cultura: per criticare la legnosità di una trasmissione scrive che la tv-spettacolo l’ha inventata Eliot con il concetto di “correlativo oggettivo”: «se sei un poeta e vuoi esprimere la passione che ti urge dentro, non metterti ad abbaiare alla luna, ah come amo, ah come soffro. Se sei un vero poeta inventa un personaggio, un oggetto, una situazione che sia l’equivalente (ovvero il “correlativo oggettivo”) del tuo travaglio interno». Nei programmi condotti su RaiUno nei primi anni ’80 proprio Placido, per raccontare il Duce (“Serata Mussolini”, 1983), aveva finto di mettere all’asta una serie di oggetti legati al fascismo, un’antenna radio, un parafulmine, un giradischi, un quadro futurista, un balcone: ognuno di essi era il “correlativo oggettivo” utile a spiegare senza annoiare.
Ma è la rubrica su “La Repubblica” che lo fa entrare nelle case degli italiani. Da essa (e prima forse dalla penna di Arbasino) nasce nel 1985 la mitica casalinga di Voghera, diventata poi un topos di qualsiasi critica, televisiva e non: egli rimprovera Vespa di essere stato poco chiaro sulla crisi governativa e compiange lo spettatore, qui identificato con brillante sineddoche nella casalinga lombarda. L’informazione cade spesso sotto il suo sguardo. Placido le contesta di essere per lo più verbosa e sonnolenta, quando non ipocrita o faziosa, piena di notizie vuote: «quelle notizie così formali, così ufficiali, così ripetitive e stereotipe che passano sul telespettatore come l’acqua sulle oche (si dice in Toscana)».
Cercando relazioni tra cose in apparenza distanti e distinte, gettando lo sguardo su tutto, Placido non propone, avrebbe detto Rodotà, «gerarchie, ma rigorosi criteri di giudizio». L’imperativo, insomma, è distinguere e connettere, (da Forster, “only connect”), come ha osservato Marcoaldi nell’introdurre una sua raccolta di articoli. Ma nelle note tv va oltre: dimostra una capacità fuori dal comune di leggere i segni del tempo, soprattutto quando essi si materializzano in pratiche basse, popolari. Un’attenzione che non piace a Sandro Viola che nel ’91 sulla stessa “Repubblica” scrive: «quando un critico televisivo cita Platone o Nietzsche o Lévi-Strauss recensendo uno spettacolo con la Cuccarini, mi viene sempre in mente Errol Flynn nella Carica dei seicento. Quel tentativo disperato di tenere alto il vessillo della brigata di Cavalleria Leggera, di non farsi travolgere dal nemico, così come il critico televisivo inalbera la bandiera della Cultura, per non soccombere tra i miasmi dei varietà serali».
L’accusa è forte. Ma non spaventa Placido: «le comunicazioni popolari, di massa, alle quali la televisione evidentemente appartiene», replica, «si sono sempre presentate, a prima vista, così. Piuttosto male. Come una informe poltiglia di romanzoni, di canzonacce, di poesiole pretenziose e fatue. Poi passano dieci, quindici anni… Ci si volta indietro e ci si rende conto che in quella poltiglia c’erano delle cose nuove e pregevoli. Che la cultura alta non aveva saputo esprimere». Con lui finiscono a mal partito i laudatores temporis acti: li paragona all’aristocratica francese che parlava bene della Rivoluzione, «ma erano anni di terrore, Madame, la ghigliottina lavorava infaticabile, le teste cadevano nei panieri! Sì, rispondeva la Marchesa, ma io avevo vent’anni»; i misoneisti diffidenti, soprattutto se l’ultima novità è popolare; l’intellettuale che dichiara sprezzante verso la tv ma poi ci va a presentare l’ultimo libro (“l’integralittico”); ed anche quei cultori della trasgressione che di fronte a “Dallas” o “Dynasty” alzano il sopracciglio: «sempre gli stessi personaggi, sempre le stesse prevedibili cose. Qui non si innova, non si rivoluziona, non si trasgredisce mai», scrive Placido: «Ciò non toglie che Dallas e Dynasty abbiano un loro diritto di cittadinanza… Perchè il nostro immaginario ha bisogno di sapere, sì, che domani è un altro giorno, trasgressivamente diverso da oggi; ma ha altrettanto bisogno di sapere che domani, come oggi, sorgerà il sole, poi tramonterà, poi verrà la luna, con assoluta rassicurante regolarità».
Placido destruttura i luoghi comuni con cui la tv viene percepita, ma pure sa cogliere il limite di un mezzo che funziona nelle emergenze, che racconta bene le disgrazie però non sa fare altrettanto con la normalità. E non sa andare oltre le facce, «guardare dentro le persone». Con “Ben” la critica televisiva esce dall’hortus conclusus dello specialismo ed entra nel pubblico dibattito. Sarà cosi fino al ’93, anno in cui “A parer mio” chiude: «Basta, sono cotto», dice a Scalfari, «Se continuassi la mente mi diventerebbe liquida». Dopo di lui sarebbe cambiato tutto. Il mestiere oggi è soffocato dalla babele dell’individualismo social, dalla crisi dei giornali. Placido avrebbe saputo risuscitarlo con la sua lezione. Che tanto ci manca. Come manca alla tv e alla nostra cultura.