Dallas, Tolstoj, Hemingway e "I fatti vostri". Quattro brani folgoranti del Beniamino recensore

Dieci anni fa moriva Beniamino Placido, critico, conduttore televisivo e giornalista culturale di "Repubblica" fin dai primi numeri. Autore di saggi sulla televisione, ha tenuto sulle pagine del quotidiano la rubrica di critica televisiva "A Parer Mio", dal 1985 al 1991. Eccone alcuni estratti.

Dallas e Tolstoj
Perché questo è l’altro segreto di “Dallas”. Di essere una storia di famiglia, anzi di famiglie: gli Ewing e i Barnes, impegnate in un assiduo intreccio, in un incessante confronto. E la famiglia è di per sè la sede di tensioni sadomasochistiche. Ci si ama e ci si odia. Ci si vuol bene e ci si fa del male. Spesso le grandi storie sono storie di famiglie. La famiglia terribile degli Atridi. La famiglia disgraziata dei Karamazov. Le infinite famiglie - o belle o brutte ma ci sono tutte - dei romanzi dell’Ottocento. A proposito, come comincia “Anna Karenina” di Tolstoj? Comincia con queste parole: «Tutte le famiglie felici sono simili fra loro; ogni famiglia infelice è infelice a suo modo»… (24 ottobre1985)
Il mestiere del critico
Com'era bella la tv vista con gli occhi di Beniamino Placido
6/2/2020

Lo confesso Vostro Onore, la guardo e ne godo
Affetto da misoneismo non volevo avere una televisione. Così mi sono perso, a cavallo fra gli Anni 50 e gli Anni 60, quella Canzonissima di Nino Manfredi che tutti considerano adesso un piccolo capolavoro. Per fortuna, il 2 luglio 1961 morì Ernest Hemingway. Ho detto per fortuna? È vero, l’ho detto, ma senza irriverenza. Ho sempre amato Hemingway. Allora più di oggi. Tant’è vero che qualcuno doveva saperlo in Televisione, e mi invitò a scrivere il testo per una trasmissione commemorativa. Lo feci. Sì, la morte di Hemingway fu proprio una fortuna per me. In questo senso: mi fece venire in testa un pensierino. Se corro con tanto interesse a fare un po’ di televisione quando mi chiamano, perché poi non la guardo? O la guardo con sussiego? Questo pensierino mi ha aiutato a stabilire con la televisione un rapporto un po’ meno ridicolo di quello di coloro che dicono: io non la vedo ma ci vado. Non ci vado (solo perché non posso) ma la vedo. (13 maggio 1989)

Sospetto che le élites non dicano più niente.
Una volta pensavamo che la letteratura di massa ci consolasse. Mentre la cultura di élite ci diceva le verità sgradevoli che solo noi, spiriti forti siamo in grado di affrontare. Adesso cominciamo a sospettare il contrario. Che sia la cosiddetta letteratura di élite a dirci poco o niente. Mentre le verità profonde e sgradevoli è proprio la cultura di massa a sussurrarcele. A suo modo si intende, fra volgarità e grossolanità insopportabili. Per esempio, chi ci ha avvertito per tempo che il nostro mondo, anche quello finanziario, è governato da conflitti tribali, da lotte opulente e truculente di clan contro clan, di famiglie contro famiglie? Chi ce l’ha sussurrato all’orecchio, se non Dallas o Dynasty? In questa nostra civiltà di massa le cose accadono o si esprimono proprio là dove noi, critici beneducati non siamo stati educati a cercarle. (29 marzo 1990)

Addio mio video
Come capro espiatorio c’è oggi la televisione, un parafulmine: al quale affidiamo l’incarico di attrarre e scaricare a terra tutte le cose che non vanno. Questa la prima difficoltà “ambientale” in cui si colloca il lavoro del critico televisivo. Ce n’è un’altra. La televisione non è fatta per lui. È fatta soprattutto per gli altri. Per coloro che non hanno una laurea, qualche libro da leggere, qualche amico con cui passare la serata. Ma provate a farlo capire agli “intellettuali” convenzionali. Tutti si dichiarano appassionatamente interessati a capire gli altri, i diversi da noi. A patto però che vivano in Sudamerica o in Africa, se si tratta invece dei nostri vicini di casa - il giornalaio, il vinaio, il calzolaio - allora no. Come mai possono piacere a loro le cose (le trasmissioni) che non piacciono a noi? Come possono sopportare “I fatti vostri”, oppure “Saluti e baci”? Non ci passa mai per la testa che quelle trasmissioni possano significare per loro cose diverse che per noi. (11 aprile 1993)