Hisham Matar: «La scrittura non intaglia uno spazio ma occupa un vuoto»
La profondità del silenzio. L'importanza della solitudine. Il fascino dell'arte senese. Lo scrittore libico premio Pulitzer racconta il suo nuovo lavoro "Un punto di approdo". E ammette: «Nei miei libri cercavo mio padre, ma ho trovato me stesso»
GettyImages-698708272-jpgHisham Matar è uno scrittore libico che si divide tra Londra e New York. Ha scritto due romanzi: “Nessuno al mondo” e “Anatomia di una scomparsa” (Einaudi). Il suo “Il Ritorno”, che gli è valso il Pulitzer 2017 per Biografia e Autobiografia, ha al centro il viaggio dell’autore in Libia dopo 25 anni di assenza, alla ricerca delle tracce di suo padre, l’attivista libico Jaballa Matar, rapito al Cairo dai servizi segreti egiziani, riportato in Libia e scomparso da allora.
Al centro dei libri di Matar, dei romanzi come dell’autobiografia, il tema dell’esilio, lo sforzo di convivere con un’assenza e trovare un significato al vuoto lasciato dalla perdita del padre tanto amato.
Matar scrive “Un punto di approdo” nel periodo tra la stesura de “Il Ritorno” e la sua pubblicazione. È un breve, bellissimo memoir delle settimane trascorse a Siena, esplorando i dipinti della Scuola senese, opere a cui l’autore si era avvicinato diciannovenne, dopo il rapimento del padre.Ogni giorno si recava alla National Gallery di Londra, trascorrendo ore a osservare e studiare ogni dipinto.
Matar descrive la città e le opere che visita, e con esse il tempo dedicato a sopravvivere alle assenze che lo animano a trovare significato a quella ricerca e all’accettazione della perdita. La sua prosa precisa, limpida, parole marcate dalla cura e dall’attenzione, Matar cammina in uno spazio e attraversa sé stesso come una città, esplorandosi.
Com’è cambiato, se è cambiato, il tuo sguardo sulle opere della Scuola di Siena rispetto a quando avevi diciannove anni? «È cambiato come cambiano le cose che riteniamo di conoscere molto bene. Quando pensi di conoscere qualcosa in profondità, da lungo tempo, ecco che la medesima cosa può diventare anche più misteriosa. Non penso ci sia un luogo più misterioso della casa, il mio appartamento, il luogo che in fondo mi è più familiare. Con le opere della Scuola di Siena ho avuto un avvicinamento da non esperto, ci sono molte cose che non conosco ma il mio interesse è duraturo, solido nel tempo. E con esso la curiosità che negli anni è diventata più ricca, più intricata. Granulare, direi».
La descrizione dei tuoi giorni a Siena è anche una disciplina dello sguardo, una pedagogia del vedere. Viviamo muovendoci in fretta, tutto scorre intorno a noi con troppa velocità, tutto sembra rapidamente agito e digerito. C’è anche questo nella descrizione dei tuoi giorni senesi? Un invito alla lentezza e all’accettazione di sentirti smarrito? «Sì. È così. È un tema che ha rappresentato una preoccupazione per me. Frantumiamo la nostra attenzione, pensiamo a più cose contemporaneamente invece di sostare su una sola per tutto il tempo che necessiterebbe. Vivo nel mio tempo e non ne sono dispensato. Intorno a noi tutti si preoccupano di curare la noia, prodotti e stili di vita sono pubblicizzati sulla base del fatto che ti cureranno dalla noia, mentre io la trovo la così interessante. Penso che l’arte provenga essenzialmente da uno stato di noia, e credo che abbiamo trascurato l’interesse per questo vuoto».
La riflessione sull’attenzione è un tema centrale nel tuo libro? «Sì, lo è. È la qualità dell’attenzione che possiamo riservare alle cose. Cosa significa, davvero, dare attenzione a qualcosa, e a qualcuno? Ho letto molti libri, è vero. Ma li ho davvero letti? Li ho letti appropriatamente? Lo stesso vale per le conversazioni con le persone che ho intorno. Mi chiedo: quando le sto davvero ascoltando? E non parlo di prestare l’orecchio alle loro parole, intendo ascoltarle. Ascoltarle davvero. Ecco, osservare un’opera d’arte è la stessa cosa».
E scrivere? «Scrivere richiede quel preciso grado di attenzione. C’è un legame stretto tra la domanda di attenzione e il richiamo alla distrazione, al nostro essere frettolosamente di passaggio da una cosa all’altra. Mi dico che sia quello che succede a chi commette un’ingiustizia. Per commettere un’ingiustizia devi sospendere l’attenzione verso qualcosa, qualcuno, non puoi pensare alle conseguenze generate dalle tue azioni. La tentazione alla distrazione è interessante, così come per me lo è l’imprevedibilità. Mi lascio trascinare anche dall’assenza di intenzione. Non sapere cosa accadrà, l’imprevedibilità degli incontri e degli eventi. L’esperimento che la vita è rappresenta per me un valore prezioso. E implica anche la possibilità di essere delusi. Ma l’inconoscibilità di ogni esito è per me un grande valore».
Come il tuo incontro con Adam, un uomo di origine giordana che vive con la famiglia a Siena, e di cui parli nel libro? «Non sapevo cosa Adam cercasse nel nostro incontro, e non sapevo cosa io stesso volessi, ma è stato molto naturale trascorrere tempo insieme. Questo genere di incontri richiede entusiamo verso il genere umano. E io lo sono, sono un entusiasta del genere umano».
Rainer Maria Rilke ha scritto che “il bello non è che l’inizio del tremendo”. Questo verso mi è tornato in mente spesso leggendo il tuo libro. Come se l’arte fosse un approdo, ma anche un precipizio, un punto di caduta. Vale anche per te? «Non credo che la Bellezza possa essere l’inizio, la fine o che sia in qualche modo connessa con l’orrore. Può diventarlo certo, ma per me è stata più la ricerca di un luogo dove non sentirmi debole, senza scampo, non sentirmi incapace di agire, pensando a quello che mi stava accadendo, il rapimento di mio padre».
Un’elaborazione attiva? «Pensa alla storia delle ingiustizie, in particolare nell’età contemporanea. Un esempio per tutti, il Sud Africa, i tentativi di riconciliazione. C’è un particolare tipo di morbo che può affliggere le vittime e consiste nell’essere destinati a soffrire in silenzio. Meno le vittime sono in grado di elaborare il proprio dolore e più quel dolore diviene tossico. Diventa passivo, sembra che non ti stia accadendo davvero, ma senti di avere un’ostruzione intima, privata. Quando sono arrivato a Siena, e pensavo al significato profondo che queste opere avevano rappresentato per me nel momento in cui mio padre è stato rapito, ho capito che quello che stavo vivendo era l’opposto di un dolore passivo. Perciò non penso che l’arte sia una consolazione, ma che richieda una concentrazione attiva: raccoglie idee, bellezza dell’immaginazione umana, compassione, curiosità. E genera importanti interrogativi. Impegnarsi intimamemente nella relazione con un’opera d’arte mi fa sentire più più vicino al grado più alto delle attività umane».
Leggendo il tuo libro ho pensato che riflettessi sul tempo. Sulla ridefinizione del tempo, il tempo di scrivere, la ricerca del passato, il tempo di osser, vare, comprendere o interpretare un’opera. Il tempo di essere riconosciuto da altri. Cos’è per te il tempo, Hisham? «Sono felice che mi interroghi sul valore del tempo. Quello che credo accada con ogni opera letteraria, musicale, artistica, è che in qualche modo impone di pensare a quale sia la tua relazione con il tempo. Se dai un ordine a una storia sottoscrivi una comprensione del tempo, anche involontariamente. È il tempo che accade nelle nostre storie, ma anche quello che accade ai nostri lettori. Se devo darti una definizione penso che il tempo sia poroso, una spugna, tiene insieme il passato e il futuro. Il tempo è sentire che siamo coinvolti in qualcosa che ci supera, qualcosa di fluido, comlesso. Il tempo è poroso, ecco».
L’arte illumina i talenti, consegna alle parole uno strumento per essere dette. Come la solitudine. Cos’è per te la solitudine? «Per scrivere ho bisogno di creare condizioni ottimali: essere solo, e in quiete. E anche altro credo, una forma di gentilezza, di delicatezza. Un’atmosfera in cui puoi realmente sperimentare, perché ogni frase non è che un esperimento. È come un atto di fede, significa credere che qualcuno troverà interessante quello che scriverai. E che quello che stai per scrivere avrà per loro un peso, un significato. Flannery O’Connor una volta ha detto che un depresso non potrà mai scrivere un romanzo. Credo che intendesse dire che per scrivere un libro devi avere entusiasmo nell’affrontare le persone, e io ce l’ho».
Qual è l’ultima opera d’arte che hai osservato a lungo? «Un opera che sto osservando da tre anni. È un dipinto nella collezione Wallace a Londra. È di Nicolas Poussin, di cui scrivo nel libro, un dipinto intitolato “Dance to the Music of Time”. È meraviglioso. Un’opera piena di idee sui diversi aspetti del tempo, da un lato c’è quello che potrebbe accadere, dall’altro la consapevolezza che altrove sta accadendo qualcosa di completamente diverso. E al centro questa danza, le donne che girano in cerchio, la maggior parte si tiene per mano ma due di loro sono sul punto di toccarsi».
Nel 1918 Camille Mauclair parlando con lo scultore Auguste Rodin, disse: «Si direbbe che voi sappiate che nel blocco c’è una figura, e che vi limitiate a rompere tutto intorno l’involucro che la nasconde». Mi chiedo se questa metafora valga anche per te, se ogni opera sia un blocco di marmo da levigare, con un materiale grezzo che resta sempre con noi. Come una perdita. «Con la scrittura sono alle prese con uno spazio da riempire. E il libro inizia con l’emozione di riconoscere quello spazio. È come se d’improvviso vedessi un’apertura per quello che voglio scrivere, che penso di poter scrivere. Non se riuscirò, ma so che sto per provarci. Ecco perché necessito di molto tempo, ho bisogno di accumulare un’atmosfera, un tono. Per me i libri non sono solo la storia che contengono, sono la qualità della presenza, e la qualità dell’attenzione verso i temi e i soggetti. Restando sulla metafora della scultura, non è tanto intagliare uno spazio, quanto occupare un vuoto».
La tua storia personale, la storia della tua famiglia e il tuo Paese sono sempre presenti nelle tue opere. Così è anche in “Un punto di approdo”. Penso alle tue conversazioni con un amico, a Tripoli, le riflessioni sul Nemico, mentre parli di Davide e Golia. Osservando la Libia oggi, quanto sia affascinante e opaca, sempre persa e sempre sul punto di ritrovarsi, ti chiedo: cos’è per te la Libia oggi? «È un luogo che rappresenta un legame naturale e profondo. In Libia l’eredità del passato costituisce pesanti barriere, un ostacolo per il futuro e per il progresso. Per questo il Paese è diventato sempre più esposto all’interesse e all’influenza di Paesi esterni, e questo rischia di tradursi in un sentimento di sfiducia e di disperazione nelle persone. Trovo stupefacente la capacità di ripresa dei libici, trovo incredibile quanto siano immediatamente generosi anche in momenti di grave crisi. Vivono tra gruppi frammentati, alleanze fluide, in un Paese pieno di armi, con rapimenti e violazioni di diritti umani ogni giorno e tuttavia le famiglie restano una struttura di coesione sociale e aiuto molto solida. Non è scontato, è sul punto di corrodersi, eppure resiste. E credo che momenti come il 17 febbraio (l’anniversario della rivoluzione del 2011, Ndr) siano fondamentali per ricordare alle persone che almeno l’ombra di quel sogno rimane».
Nell’ultimo capitolo del tuo libro rifletti sul “Paradiso” di Giovanni di Paolo, una piccola immagine che rappresenta il ricongiungimento nell’Aldilà di coloro che si sono persi da tempo e scrivi che l’opera “sa che il nostro maggiore desiderio è essere riconosciuti, perfino più di quanto desideriamo il paradiso; che indipendentemente da quanto il tempo ci ha trasformati e trasfigurati, qualcosa di noi deve sussistere e restare percepibile a coloro che abbiamo passato tanto tempo ad amare”. Cosa hai trovato di te a Siena, Hisham e, se posso, cosa hai trovato di tuo padre? «Una delle cose che ho realizzato a Siena è che la mia istintiva curiosità verso queste opere d’arte, quando avevo 19 anni, fosse fondata. Questo mi ha reso fiducioso sulle cose che mi restituiscono piacere. Sono impegnato e coinvolto in molti temi e idee: responsabilità civili, giustizia, mi impegno con le persone che amo, mi impegno con il mio lavoro. Ma non avevo mai pensato a me stesso come un uomo alle prese con il proprio piacere. I giorni a Siena mi hanno fatto riflettere sul fatto che dovremmo trattare il piacere con maggiore serietà e meno sospetto. E su mio padre. Penso che… (tace a lungo, Ndr). Penso di essere progressivamente meno interessato a mio padre. Mio padre è stata una presenza estremamente generosa, finché c’è stata, e la vicenda che lo riguarda è stata il centro della mia vita per molto tempo. Conoscendo il suo carattere so che non avrebbe voluto dominare la mia vita così come ha fatto dal giorno in cui è cominciata la sua assenza. Negli ultimi anni ho messo al centro della mia vita me stesso, e la cosa strana è che lo sento più vicino. Ora quando penso a lui, penso a mio padre, non penso al prigioniero politico o alla vittima di tortura, penso a lui. E sono diventato io il protagonista della mia vita».