Il mare, i pini, l'anguria. Tutto sembra come deve essere. Ma è solo un modo per chiudere gli occhi. Per non vedere che all'orizzonte c'è un settembre qualsiasi. C'è un groviglio di domande. C'è un Capodannno di un mondi diverso

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Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. L’insolito destino è quello dell’estate più incerta degli ultimi decenni. E l’appuntamento del primo Ferragosto degli anni Venti ha qualcosa di familiare e di straniante insieme. Riconosci l’eterna, italianissima pausa estiva, eccola - l’unico giorno dell’anno in cui la macchina del mondo sembra davvero fermarsi, quello in cui il riposo diventa (quasi per tutti) diritto inalienabile. «L’ombra dei pini, le radio accese, i cartocci e le bottiglie»: ne scriveva Alberto Moravia più di sei decenni fa, e tutto resta lì, segno di un’eterna, quasi inscalfibile estate italiana. Pasolini, che commentava preoccupato la voglia di divertimento di «un drappello di incoscienti», come commenterebbe le ordinanze anti-movida e i falò calmierati? Quanto al protagonista di “Un sacco bello”, il film d’esordio di Carlo Verdone che usciva quarant’anni fa esatti, si troverebbe a chiedere agli amici non «volevo sapere com’eri messo per Ferragosto» ma piuttosto: come sei messo, che fai dopo Ferragosto? Perché questo strano Ferragosto del 2020 è una linea di confine: non solo fra l’estate, le vacanze e il loro declinare, come è sempre stato. È una linea di confine tra il come eravamo e il come saremo.

C’è stata la quarantena, c’è stata la Fase 2, c’è stata la Fase 3, c’è stata l’esitazione e poi il ritorno - anche affamato, goffo, imprudente - alle abitudini, a ciò che eravamo, a ciò che amavamo. La primavera, cupa e raggelata, è stata seguita da questa estate insolita - corta, perplessa, simile a un limbo. Ci si è sfarinata fra le mani.

E così eccoci qua. Tutto sembra come deve essere, in una scenografia quasi sovratemporale. L’azzurro mare di agosto. L’ombra dei pini, le radio accese, i cartocci e le bottiglie. Anche i drappelli di incoscienti. La lasagna, l’anguria («Grazia! Ma tutta la pasta al forno te sei magnata?» esclama, stupito, Giovanni nel film “Pranzo di Ferragosto”, e l’eco arriva fino a qui). Il riposo pomeridiano. Il bagno al mare di notte.
Qualcuno, di sicuro, te l’ha chiesto: che fai per Ferragosto? E tu hai bofonchiato qualcosa. Ma l’apparenza inganna, perché laggiù, all’orizzonte, non c’è un settembre qualunque, non c’è il consueto capodanno civile. I diari, gli astucci. L’ansia e insieme il desiderio di riprogrammare, di riprogrammarci. C’è un groviglio di domande. C’è il capodanno di un mondo diverso.

Come sarà tornare a scuola? Come integreremo, trovando un autentico e duraturo equilibrio, lavoro da casa e lavoro in ufficio? Come riprenderemo, al chiuso e tutti in pista, le attività sociali? Una valanga di “come”, di “quando”, di “se”. Svegliarsi dopo l’estate sarà fare i conti non più – o meglio, non solo – con la Grande Paura. Sarà fare i conti con le macerie e le cicatrici della Grande Interruzione. I bambini e i ragazzi per cui tornare in classe dopo mesi e mesi non sarà semplice: sarà faticoso, come riallenarsi a una vita precedente. Le saracinesche abbassate, la scala degli ultimi che guadagna ulteriori e più malmessi gradini. I teatri, i cinema, in una stagione imprevedibile. Qualche rivista economica già si domanda se un eventuale Natale “difficile”, contingentato, possa essere il colpo di grazia per molte realtà produttive. Quali certezze ci restano in tasca?

«La mattina di Ferragosto mio padre usciva ogni anno in giardino e scrutava il cielo con un’espressione più rassegnata che interrogativa», raccontava il poeta Giovanni Raboni. E noi? Sputo un seme di anguria, alzo per un istante gli occhi verso l’alto. C’è quel groviglio di domande, sempre lì, immobile, come una nuvola nera. E allora sento un’improvvisa quanto inopportuna nostalgia di altri Ferragosto. Sfoglio una vecchia rubrica in cerca di numeri, proprio come fa Enzo/Verdone in “Un sacco bello” quando, temendo di passare da solo questa sorta di veglione diurno prolungato e afoso, si attacca al telefono. Scorro i nomi dei protagonisti di grandi storie ferragostane passate sul grande schermo, volti familiari e in qualche modo rassicuranti: vorrei riconvocarli tutti, come portatori di antiche certezze, come testimoni di altre stagioni e di altre Italie che, da qui, sembrano più facili, più spensierate. Forse non lo erano. Ma comunque: come siete messi per Ferragosto?

Come sei messo, smargiasso eterno Bruno Cortona che, con la faccia di Gassman nel “Sorpasso”, corri sulla strada consolare nella luce estiva? «A Robbe’, che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno ha giorno per giorno».

Come siete messi per Ferragosto, Raffaella Pavone Lanzetti e Gennarino Carunchio, travolti nell’azzurro mare del film di Lina Wertmüller, nella sensuale, violenta, patetica lotta di classe formato yacht di quell’estate del ’74? «Questo [tirando un calcio, ndr] è per gli ospedali che un poveraccio non ci riesce a entrare mai, che magari è meglio perché se ci entra muore. E questo è per l’aumento della carne, del parmigiano, delle tariffe filo-tramviarie del treno e l’aumento della benzina. Per l’aumento dell’olio e della cassa integrazione. Questo è per l’Iva e per l’una tantum. E questo è perché ci avete fatto venire paura anche di campare».

Come sei messo per Ferragosto, Nanni Moretti a bordo della mitica Vespa nell’estate del ’93? «Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste. Cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi ritroverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un’isola deserta perché il regista non crede nelle persone... Io credo nelle persone. Però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre d’accordo e a mio agio con una minoranza…» (e l’allusione è proprio al film della Wertmüller). La voglia di ballare, Roma deserta, Spinaceto pensavo peggio. Lo splendido quarantenne che vaga per le strade sgombre in una luce abbagliante. “Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti…”.

Come siete messi per Ferragosto, Sandro Molino e Ruggero Mazzalupi, che battibeccavate a Ventotene nell’estate del ’95, in “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì? Mazzalupi/Fantastichini, berlusconiano, così si rivolgeva al militante di sinistra Molino/Orlando: «Perché voi intellettuali v’atteggiate tanto, parlate così sofistici, state sempre a critica’, a giudica’, ma lo sai qual è il problema? La verità è che nun ce state a capi’ più un cazzo!”. E Molino, malinconico, sotto il cielo stellato: “Vorrei... Vorrei... Vorrei... Troppi desideri è come non averne nessuno».
Troppi desideri è come non averne nessuno. Già. Quali sono, di preciso, in questa estate del 2020? Sapremmo definirli, tradurli in parole, o restano troppo confusi? Viviamo di speranze e di promesse fatte a noi stessi. Tutti i nostri sogni sono una polizza assicurativa rischiosa e incerta. Al risveglio, capita che il mondo, che pure sembra quasi lo stesso, in realtà non lo sia più. Siamo i protagonisti di un film, magari ferragostano, che qualcuno girerà. Fermi e ansiosi al passo che porta dentro un nuovo decennio. Costretti a riconsiderare sotto una luce inconsueta la parola normalità. Non ci siamo mai chiesti così intensamente che cosa fosse, non l’abbiamo mai rimpianta tanto. Normale? Che cos’è normale? Che cosa sarà normale? Lo sapremo dopo Ferragosto.