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Adele Grisendi: «Giampaolo Pansa, il mio inimitabile spaccavetri»

di Paolo Di Paolo   11 gennaio 2021

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C’è ancora molto da leggere e capire in oltre mezzo secolo di scritti scomodi e affilati del giornalista. Lo conferma il memoir che la vedova gli dedica nel primo anniversario della scomparsa

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Siamo ancora disposti a farci provocare? A leggere – senza sentirci feriti - le parole di chi non si attiene alla versione dei fatti dominante, di chi la discute, la contraddice, la scompiglia? Le parole di chi fa lo “scorretto” per vocazione e per divertimento, di chi stona, di chi spariglia. Le parole degli “spaccavetri” come Giampaolo Pansa. Non è anche questo il bello di leggere un giornale? Saltare sulla poltrona, sentire la scossa che arriva da chi non ha nessuna intenzione di compiacerci né di assecondare la nostra prospettiva sulle cose. È una sequenza di domande che vale forse la pena di porsi a un anno dalla scomparsa di questo giornalista per cui il convenzionale aggettivo “discusso” era una patente di professionalità. Che gusto c’è a scrivere sui giornali se non discuti e non fai discutere?

Quando, in un saggio-pamphlet intitolato “Bianco”, Bret Easton Ellis accusa i millennials di essere perennemente scandalizzati - adolescenti invecchiati che non accettano visioni alternative senza frignare - sta forse indicando una più larga, e ormai trasversale, indisponibilità a valutare opinioni che non rispettino tutti i parametri del politicamente corretto. Ma la scorrettezza intelligente, la scorrettezza degli spaccavetri di talento, non è forse utile anche per tornare, con rinnovata convinzione, alle proprie idee? Il non essere d’accordo non è forse più interessante dell’essere d’accordo?

I miei coetanei millennials non leggono molto i giornali. Ma molti dei loro genitori devono avere dimenticato quanto fosse appagante correre in edicola, piegare e infilare in tasca un giornale con la certezza che avrebbe prodotto, alla lettura, qualcosa come una scarica elettrica. La meraviglia di indignarsi, di incazzarsi, di sentirsi vivi.

Leggendo il lungo memoir di Adele Grisendi, che gli è stata accanto per trent’anni - “La mia vita con Giampaolo Pansa” (Rizzoli) - ho pensato più volte a questo: a un’allegra e vitale energia. Quella che l’ha spinto a imbarcarsi fino all’ultimo in nuove, sghembe avventure giornalistiche pur di continuare a raccontare. La leggenda degli intemperanti – quelli come Montanelli, Fallaci, Bocca, quelli come Pansa – arriva fino a noi proprio per un sovrappiù di energia, anche fisica: uno spostamento d’aria, l’irruenza con cui picchiavano i tasti delle loro Olivetti. Picchiava, appunto, il Pansa «per ore sui tasti della sua Olivetti 33, una delle tante che ancora fanno bella mostra di sé sui ripiani delle librerie nella nostra casa».

Racconta Grisendi: «Stava seduto su una sedia un po’ instabile che componeva l’arredamento insieme a un divano sfondato a due posti. Non disponeva di un tavolo da lavoro, ma di un tavolino di forse un metro per ottanta sul quale apriva di volta in volta una delle cartelle numerate e con dentro i documenti e gli appunti».
Il ragazzino balbuziente di Casale Monferrato diventato il «cronista fantastico della politica italiana» archiviava, glossava, evidenziava.

Grisendi ce lo mostra inesausto «raccoglitore di pagine di giornale e riviste»: «Ho imparato presto a riconoscere il rumore della carta strappata. Era lui a guardare per primo il pacco dei giornali. Oltre a farmi una rassegna stampa degli altri, mi consegnava il “Corriere” e “Il Sole” e mi raccomandava: “Non buttare le pagine dove c’è il post-it. Voglio conservarle”. Gli servivano per scrivere l’articolo che aveva in mente e per ammobiliare l’idea che intendeva far arrivare ai lettori. Ogni tanto lo obbligavo a buttare pacchi di pagine ormai inutili, ma che fatica!».

Con tenerezza, Grisendi racconta il Pansa da vicino, il loro sodalizio e la loro quotidianità, e nel farlo ricostruisce le sue diverse stagioni: il debuttante sulle pagine del “Monferrato”, l’inviato del “Giorno” e della “Stampa”; gli anni a “Repubblica” accanto a Scalfari, la rubrica su “Panorama”; la condirezione dell’“Espresso” accanto a Claudio Rinaldi. E poi le liti e i balzi da giornale a giornale - diceva divertito di avere scritto dappertutto, tranne che su due o tre testate. Sempre «facendo il Giampaolo», come Scalfari chiarì una volta per tutte: fa quello che crede. Bizzoso, imprevedibile, impaziente.

Faceva il Giampaolo quando intervistava gli «squadristi in doppiopetto» dei primi anni Settanta: impressionante il modo in cui osservava, coglieva i dettagli - sempre l’occasione per un viaggio nell’umano -, o raccontava le trattative bizantine dei consigli democristiani, o l’attesa delle parole di Zaccagnini nei giorni del rapimento di Moro («siamo tutti qui col taccuino in mano, a torchiare Pisanu, per sapere le solite cose inutili e un po’ feroci. Com’era Zac? Che cosa ha fatto Zac? Che cosa ha mormorato Zac?»). «Inutili e un po’ feroci»! Perché i fatti svaporano, la cronaca stinge, ma restano le parole. Resta il modo in cui le cose vengono raccontate. Il modo in cui descrivi un altro essere umano: «un sorriso da giovane lupo, in un viso forte, con due occhi azzurro freddo, e una barba da vero alpino». Pietro Ingrao che fissa il vuoto, «e da lontano gli occhi mandano lampi d’acciaio dentro un viso intagliato in un vecchio ulivo».

Una volta Nello Ajello spiegò il suo talento di ritrattista come l’arma consueta del cronista politico: «La maneggiava con destrezza, spremeva fino al midollo i suoi modelli, ne esplorava la psicologia e la fisiognomica con un’attenzione che sfiorava la perfidia: non c’era sogghigno, sorriso o sospiro dei maggiorenti che gli sfuggisse».

Dentro il Pansa giornalista c’era un Pansa romanziere, che poi autore di romanzi diventa davvero. Ma la verità è che un grande giornalista un piccolo romanzo dal vero lo scrive ogni giorno, lo stringe nello spazio minimo di una rubrica - una rubrica come il “Bestiario”, poniamo, che fu a lungo fra le pagine più lette di questo giornale. La regola: «Nessuna storia senza un personaggio, nessun personaggio senza una storia». Quando, all’inizio del nuovo secolo, inaugurò - spiazzando molti dei suoi antichi lettori - la saga del “Sangue dei vinti”, sulla violenza della lotta partigiana, tutto sommato continuava a fare il Giampaolo lo spaccavetri, come lo definì Ferruccio Parri.

Era sempre lui. Grisendi racconta la tristezza e il dolore per certi attacchi, per la freddezza di tanti suoi colleghi e compagni di viaggio. Era diventato il fascista revisionista: giocava a dire che considerava gli insulti una medaglia, ma un po’ - si intuisce - ne soffriva. «Rifiutano il Pansa che ha scritto il “Sangue dei vinti”»: ed è vero; alla sua morte, soprattutto in rete, sembrava che avesse scritto solo quel libro. Ma questa, in fondo, è semplice ignoranza; e c’è molto da leggere, da studiare, da capire nel gran lavoro del Pansa di oltre mezzo secolo. Nel rumore che ha sempre fatto la sua prosa. «Perché - scrive Grisendi - serve fare rumore, serve eccome, come mi hai insegnato tu, il mio caro spaccavetri».