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Michela Marzano: «Mio nonno era fascista»

di Michela Marzano   5 ottobre 2021

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Un viaggio alla ricerca delle origini. La vergogna per la scoperta di un avo fervido seguace di Mussolini. Un romanzo che si interroga sul diritto e la libertà di raccontare. E il rispetto della verità storica

Iscritto al P.N.F. il: 15/5/1919
Nonno, che ci facevi tra quei disperati che seguirono Mussolini sin dall’inizio? Me lo domando in maniera ossessiva. Con chi ce l’avevi? Sono giorni che non penso ad altro. Non poteva essere semplicemente per via della guerra o di quello che avevi vissuto al fronte, vero? Dovevi per forza avercela con qualcuno, non poteva essere altrimenti, solo chi covava dentro di sé una rabbia cieca poteva lasciarsi subito coinvolgere dai discorsi folli del Duce, no? Mi ostino. Erano la voglia di riscatto sociale e l’insoddisfazione? Perdo la pazienza. Era l’ambizione?


Non riesco ad andare avanti nella scrittura. Ogni sera accendo il computer, apro il file “lamiastoria”, rileggo quello che ho scritto, cambio una virgola, una parola, una frase. Poi guardo di nuovo le foto della tessera del pnf, rileggo per l’ennesima volta la data di iscrizione, mi blocco.


Quand’ero a Roma, ho chiesto a mio padre se avesse per caso conservato documenti e carte familiari degli anni Venti e Trenta, ma a quanto pare no, non ha nulla: niente lettere, niente foto, niente ricordi. Il passare del tempo sembra aver cancellato ogni traccia di quel periodo. E, anche se a me pare inconcepibile che papà non abbia mai cercato di indagare sul passato di suo padre, devo rassegnarmi all’idea che non lo fece.


Mi ostino a riaprire il file che troneggia al centro della scrivania del mio Mac, ma non riesco più a scrivere.
Sono paralizzata.

«Inventa», mi dice Jacques. «Immagina, crea, racconta. Non stai scrivendo un libro di storia, stai scrivendo un romanzo».
«È la mia storia, Jacques. È il passato della mia famiglia. A me interessa la verità, altrimenti che senso ha parlare di mio nonno?».
Quando gli ho annunciato che volevo raccontare la storia della mia famiglia, ha detto che non gli sembrava affatto una buona idea. Ha detto che non capiva che cosa io cercassi esattamente di provare o comprendere. Ha detto: «Hai deciso di trovare il modo di farti del male anche quando scrivi? E poi, non sei tu la prima a sostenere che tra la verità storica e la verità narrativa c’è un abisso?».
È vero, è così che gli ho detto quando ho provato a spiegargli il perché di questo libro: è soprattutto quando si racconta la propria storia che si inventa. Gli ho detto che il passato si muove e cambia di continuo, esattamente come il presente. Gli ho detto: «Sarà solo la mia versione dei fatti, niente a che vedere con ciò che, forse, è accaduto davvero!».

 

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Anni fa, per alcuni mesi, avevo accarezzato l’idea di scrivere un romanzo ispirato alla vita di Simone Touseau, la tondue de Chartres, una delle tante donne che, al momento della liberazione, vennero accusate in Francia di “collaborazione orizzontale”. E per questo rasate, incatramate, talvolta persino marchiate a fuoco sulla fronte con una svastica.


Il 16 agosto 1944, Simone ha ventitré anni. Una foto ormai celebre di Robert Capa la ritrae con in braccio Catherine, la figlia di pochi mesi, circondata da una folla di uomini, donne e bambini che la scherniscono, urlano, ridono, lanciano pietre. Chi era davvero questa donna? Che fine ha fatto sua figlia? Cosa le è stato raccontato e cosa invece non le è mai stato detto?


Avevo pensato che sarebbe stato bello raccontare di come Simone si lasciò pian piano morire, tra alcolismo e depressione, negando fino all’ultimo le accuse rivolte contro di lei: sì, aveva avuto una storia con Erich Göz, il padre di sua figlia; sì, aveva amato profondamente un nazista; sì, di quei giorni passati con lui non rinnegava nulla; ma la patria non l’aveva tradita, questo mai! E non fu lei a denunciare i vicini di casa come le venne invece rinfacciato, come avrebbe potuto denunciare i genitori delle sue amiche?


Mi ero detta che mi sarebbe piaciuto far parlare in prima persona sua figlia, Catherine, la quale – dicono gli storici – a un certo punto decise di mettere un punto e andare a capo, senza mai parlare ai propri figli di sua madre.

 

Avevo iniziato le ricerche, ero andata negli archivi, avevo preso appunti. Poi avevo deciso che non potevo: non avevo il diritto di raccontare questa vicenda. Anche se avessi cambiato i nomi e inventato un racconto tutto mio, ispirandomi alla storia di due donne realmente esistite, correvo il rischio di infangarne la memoria. Chi scrive lo sa bene che con i romanzi si fanno sempre i conti con se stessi, ci si imbatte nei propri fantasmi, si proiettano le proprie ansie e le proprie vergogne; ma che diritto abbiamo, per farlo, di ispirarci alla vita di chi, non essendoci più, non potrà mai dare la propria versione dei fatti?

 

E mio nonno, allora? Dov’è la sua versione dei fatti? Chi potrà difenderne la memoria, se la nipote l’infanga? Perché penso di avere il diritto di raccontare la sua storia se sono convinta di non avere quello di narrare la storia di Simone Touseau? Che differenza c’è? Che cosa immaginavo quando ho iniziato a scrivere le prime pagine di questo libro? Che avrei potuto incastrare tra loro i vari pezzi del puzzle, via via che li rintracciavo, falsificandone magari qualcuno? Chi mi ha dato l’autorizzazione?
Oppure volevo assolvere me stessa condannando i miei antenati? Forse mi illudevo di poter capire perché non avessi mai avuto figli attraverso la ricostruzione del mio passato. Sono queste le giustificazioni che mi sono data?


Iscritto al P.N.F. il: 15/5/1919
Quel “15 maggio 1919” stampigliato sulla tessera mi sembra la prova evidente della colpevolezza di mio nonno. Parlando di lui, non posso utilizzare quelle attenuanti cui talvolta ci si appella per giustificare il passato fascista dei propri nonni o dei propri zii: a un certo punto, in Italia, quasi tutti lo divennero; ma tanti erano brave persone, non aderivano a tutto quello che diceva o faceva Mussolini; solo alcuni esagitati erano violenti, gli altri no, seguivano, si adattavano, non era come in Germania, vuoi mettere il fascismo con il nazismo?


Parlando di mio nonno, non sembra esserci alcuna attenuante – che poi, di che genere di attenuanti stiamo parlando? Perché dovrebbe considerarsi meno grave essere diventati fascisti pian piano, seguendo gli altri o adeguandosi? E i resistenti? E i partigiani? E chi si oppose al regime perdendo tutto? Chi partì in esilio o venne ucciso?

 

“Mostro”: è la parola che più ricorre negli appunti che ho preso negli ultimi giorni, nei commenti a margine di qualche documento. L’ho scritto in rosso, sulla copia stampata delle foto della tessera del pnf. È in nero, tutto in stampatello, sulla fotocopia dello stenografico della seduta del 26 novembre 1953 alla Camera dei deputati, quando mio nonno interviene in aula e, parlando delle «leggi eccezionali contro il fascismo», le definisce «aberranti». È di nuovo in rosso, sulle pagine in cui, accanto alla colonna con la cronologia del fascismo, anno dopo anno e mese per mese, annoto le tappe della sua carriera, le promozioni all’interno della magistratura, le onorificenze dell’Ordine della Corona e dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.

 

Mio nonno doveva essere un mostro.

Ma è davvero questo che cerco di dimostrare? È questo che mi interessa? Dov’è che la parola continua a incastrarsi?