Il programma di Fabio Fazio è un talk show in cui non si urla, in cui gli ospiti vengono ascoltati. E ci ricorda che anche noi telespettatori abbiamo il diritto a vedere qualcosa di buono

Quando arrivò la peste della dimenticanza, Aureliano Buendìa attaccava pezzi di carta sugli oggetti con su scritto il loro nome. «A poco a poco si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte».

 

Ecco, televisivamente parlando, quando si guarda il programma di Fabio Fazio “Che tempo che fa” è un po’ come se si leggessero i cartelli che Marquez descriveva nel suo “Cent’anni di solitudine” per sfuggire al rischio dell’oblio. Un talk show dove non serve alzare il tono di voce perché se hai un ospite non scordare che devi ascoltare quello che ha da dire. Un parterre che sia da servizio pubblico, perché se paghi il canone ti meriti di non essere sbeffeggiato con una scaletta di risulta in cui qualunque scappato di casa si sente in dovere di dire la sua sul vaccino e dintorni.

 

Allargare lo sguardo, da Lady Gaga a Tarantino, dai Queen a Lilli Gruber, Almodovar, Moretti, Ed Sheeran, attori che non hanno bisogno di visibilità, cinema, musica, giornalismo, testimoni del nostro tempo che ti aiutano a orientarti, scienziati che parlano di scienza, a ognuno il suo senza l’ansia di doversi accaparrare a tutti i costi i freaks da circo improvvisato. E memoria, quella soprattutto, perché la peste avanza e dimenticare a cosa serva entrare nelle case da quella buffa scatola è un attimo.

 

La scelta dei temi non può essere affidata a un gratta e vinci, se ti va bene bene, se ti va male hai buttato il tuo tempo. I diritti, la legalità, il buon vivere sociale, la politica senza i comizi, l’ironia, il senso critico. Il braccialetto con il nome di Giulio Regeni, per tenere accesa almeno una fiammella. E i grandi vecchi, che spesso e volentieri sono estremamente più giovani di chi li guarda, capaci di dire in poche elementari parole, come Piero Angela, che l’amore è amore, e quello omosessuale ha le stesse identiche dinamiche di quello etero, figli compresi.

 

Così su Rai Tre, etichetta dopo etichetta, domenica dopo domenica. Fino a che, chissà, ci ricorderemo da soli cosa abbiamo il diritto di vedere in prima serata, anche su altri canali, e senza bisogno di aspettare l’arrivo di Melquíades.