Intervista

Jill Abramson: «Senza il giornalismo di qualità a rischio la democrazia»

di Marco Damilano   3 dicembre 2021

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In crisi. Sotto assedio dai social. Condizionato dai poteri economici. Eppure oggi più che mai c’è bisogno del giornalismo di qualità, che onori l’intelligenza dei lettori: il solo modello sostenibile. Parla l’ex direttrice del New York Times

Dai freschi inchiostri all’alba, le prime copie dei giornali che uscivano dalle rotative, all’informazione digitale e globale, il giornalismo tiene insieme l’innovazione tecnologica per restare in sintonia con i tempi e con il pubblico e lo spirito antico che regge la democrazia. È prodotto, merce, oggetto e, al tempo stesso, custode di valori, pilastro del dibattito pubblico, opera intellettuale, soggetto. Se viene meno la seconda missione la democrazia va in pericolo. «In uno Stato moderno, le decisioni tendono a nascere dall’interazione non tra il Congresso e l’esecutivo, ma tra l’opinione pubblica e l’esecutivo», scriveva Walter Lippmann in “The Basic Problem of Democracy”, nel 1919. Un secolo dopo il ruolo di sentinelle della democrazia è messo a rischio dall’assedio dei nuovi poteri, come i social, e dalle fragilità interne del settore. Jill Abramson, 67 anni, firma del Wall Street Journal, direttrice del New York Times tra il 2011 e il 2014, oggi editorialista del Guardian, dedica il libro “Mercanti di verità” (Sellerio) alla grande guerra dell’informazione negli ultimi venti anni in America. Una inchiesta appassionante, sorretta dalla scrittura della grande giornalista, con retroscena, racconti in presa diretta, lo star system delle firme che travolge le redazioni, le incertezze degli editori, il venir meno del confine con il reparto commerciale, lo scontro con Donald Trump. Una dichiarazione di amore verso il giornalismo («La ragazza più bella è sempre il Times», scrive Abramson, «forse in omaggio a un passato ormai svanito»), ma anche una lettera ai giovani che vogliono cominciare questo mestiere «in un momento entusiasmante». Un atto di fede: «Credo che le persone avranno sempre bisogno di storie che onorino la loro intelligenza e che siano ben scritte e curate».

 

Il suo libro è un’inchiesta rigorosa e documentata su come è cambiato il giornalismo in America negli ultimi venti anni, ma è anche molto di più. È un libro sulla democrazia. L’informazione indipendente per decenni ne ha misurato lo stato di salute, oggi è diventata un problema. Perché è successo?
«Il modello di business che aveva mantenuto redditizi i giornali per più di un secolo è crollato con l’arrivo di Internet e la preferenza dei lettori digitali di avere informazioni gratuitamente. I giornali ancora oggi sono la fonte che dà per prima la maggior parte delle notizie più importanti e di tipo investigativo. Pertanto, questo tipo di giornalismo “indipendente”, che è dispendioso in termini di tempo e risorse, ha cominciato a declinare. Negli ultimi 15 anni, ha chiuso il 25 per cento dei giornali statunitensi, la maggior parte dei quali si occupava di notizie locali. È così che la copertura delle informazioni locali, che è cruciale per la salute di una democrazia, è stata particolarmente messa a rischio».

 

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Per il giornalismo sono stati anni di perdita di autorevolezza, oltre che di crisi economica. Le notizie più gettonate sono quelle che colpiscono di più emotivamente. Quali sono state le conseguenze sul mestiere, ma anche sul terreno sociale e culturale di un paese?
«L’effetto è stato molto negativo. Le notizie salaci partono da voci e storie fasulle, sottintendono opinioni politiche polarizzate, indipendentemente da quanto siano infondate, e attirano un vasto pubblico sulle piattaforme dei social media».

 

Nel libro racconta di come abbia sperato nel web e nel suo potere di democratizzare l’informazione per renderla più trasparente. Ha cambiato idea?
«Io plaudo ancora al fatto che le audience del digitale siano molto più ampie rispetto alla platea dei lettori delle pubblicazioni cartacee. L’informazione digitale è letta e condivisa da milioni di persone in più rispetto alla stampa cartacea».

 

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Cosa pensa delle mosse di Zuckerberg per affrontare la crisi di Facebook?
«Non sono sufficientemente serie. Facebook e le altre piattaforme social devono assumersi la responsabilità della veridicità delle informazioni che pubblicano sulle loro pagine web».

 

Lei scrive che tra il 2012 e il 2016 c’è stato «uno spostamento di potere epocale» e che Facebook ha alimentato la polarizzazione politica. Sono stati i social a creare il fenomeno Trump?
«No, Donald Trump è stata una creazione della televisione, in particolare con la popolarità di “The Apprentice”. Tuttavia, Trump ha saputo trarre vantaggio e dominare nei social media per dare una notevole spinta alla sua carriera politica».

 

I giornali e i media nel 2016 non hanno visto arrivare Trump, non hanno previsto la sua vittoria perché non conoscevano a fondo il Paese, erano nella bolla. Quanto ha contato in seguito nella ripresa del giornalismo la presenza di un “nemico” come Trump? Per lui l’opposizione erano i giornali.
«C’è stato un “Trump Bump”, un momento di boom per pubblicazioni quali il New York Times e un’impennata degli ascolti per i canali di notizie via cavo».

 

Nel libro c’è anche il suo racconto in prima persona, lei ha diretto il New York Times fino al 2014. Racconta i tagli alle redazioni, l’inseguimento delle notizie da condividere. E il licenziamento traumatico: nessun discorso di addio, il blocco delle mail, gli scatoloni in sua assenza. In questo trattamento ha pesato il suo essere una donna? E quali errori si è riconosciuta, ripensandoci dopo?
«No, non penso che essere donna sia il motivo per il quale sono stata licenziata. Penso, questo sì, che essere donna abbia influenzato il modo nel quale la mia personalità è stata giudicata dai miei superiori».

 

Nel suo libro si segue il percorso del New York Times e del Washington Post: l’identità, la tradizione, il posizionamento di testate con una lunga storia alle spalle è un peso di cui liberarsi o è la radice su cui costruire l’innovazione digitale?
«Dopo che è stato acquisito da Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, il Washington Post è diventato una fonte di innovazione digitale. Nell’ultimo decennio il New York Times è stato un pioniere dell’innovazione digitale».

 

Un tema molto delicato è lo sgretolarsi del muro che divideva le redazioni dal reparto commerciale. Dove passa oggi quel confine?
«Quella linea è oggi chiaramente sempre meno un confine. Non è neppure chiaro dove passi o, in certi casi, che esista ancora».

 

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Il boom dell’editoria on line, ha scritto, ha fatto a pezzi il vecchio modello di pubblicità e diffusione che era il pilastro finanziario del giornalismo. Anche in Italia c’è una grande discussione. Qual è il modello sostenibile?
«Se una impresa editoriale produce giornalismo di altissima qualità pubblicando notizie e indagini rese correttamente, controllate ed editate rigorosamente, e che onorano l’intelligenza dei lettori, il modello dell’abbonamento digitale a pagamento è un modello di business sostenibile. Il New York Times finanzia la sua attività informativa con abbonamenti digitali perché il suo giornalismo è di qualità unica».

 

Nel 2020 Bari Weiss si è dimessa dal New York Times dopo aver firmato l’appello sulla cancel culture accusando la dirigenza del giornale: il vero direttore è Twitter.
«È ridicolo sostenere che l’ultima parola al New York Times la dica Twitter».

 

Lei insegna nelle scuole di giornalismo: quali sono le qualità richieste oggi a un giovane giornalista?
«Innanzitutto, la capacità di trattare le notizie in modo approfondito e verificando le informazioni. Deve avere la capacità di scrivere in modo tale da coinvolgere il lettore. Deve avere la capacità di strutturare il modo di narrare in maniera avvincente per portare il lettore a continuare a leggere fino alla fine».

 

E quali sono invece le qualità che deve avere chi dirige un giornale?
«La capacità di ascoltare e di considerare le opinioni altrui. E la capacità di prendere decisioni e mettere sul piatto della bilancia tutte le informazioni e prove a disposizione».

 

Gli editori e i giornalisti sono sia custodi che mercanti di verità: che rapporto c’è tra questi due ruoli? Si può vendere la notizia senza che sia custodito il valore del giornalismo?
«Il successo dei tabloid e la popolarità delle notizie riguardanti celebrità dimostrano che si può vendere ogni tipo di notizia. Tuttavia, per essere custodi di verità e una fonte di notizie fidata, solo il giornalismo di qualità è un modello sostenibile».

 

La copertina del libro di Jill Abramson "Mercanti di verità" (Sellerio, 24 euro). Jill Abramson sarà a Roma in conversazione con Marco Damilano e Luca Sofri alla fiera nazioanle della piccola e media editoria "Più Libri più liberi" domenica 5 dicembre alle ore 19 all'auditorium della Nuvola all'Eur

Come giudica l’informazione al tempo della pandemia?
«La notizia della nuova variante è stata coperta in modo esagerato e ha creato panico prima ancora che i giornalisti ne sapessero abbastanza sull’aspetto scientifico. Alcune parti della copertura della pandemia hanno messo l’accento sul sensazionalismo, ma in generale penso che i media abbiano adempiuto il loro ruolo cruciale di offrire al pubblico informazioni verificate e importanti».

 

Alla fine del libro lei si dice ottimista: l’informazione di qualità potrà sopravvivere. A quali condizioni?
«Sussiste il bisogno umano fondamentale di avere informazione ben raccontata (e resa correttamente). Oggi più che mai si produce grande giornalismo. È questo a rendermi ottimista».