Un finanziere-scrittore dedica un nuovo "Candide" ai lavoratori del delivery che pedalano nelle nostre città. E ne discute con uno dei massimi esperti delle distorsioni del mondo digitale. Per trovare il modo per reagire. E ritrovare l’ottimismo

Candido pedala, guidato da un algoritmo, per racimolare una misera paga sotto forma di “crediti sociali”. Non vive in un castello, come il suo omonimo del 1759, ma in un minuscolo appartamento che condivide con la madre. Anche lui ha la sua amata Cunegonda, ma è virtuale. E Pangloss è un ologramma che si affaccia da megaschermi per distribuire i suoi precetti e gli ordini della piattaforma social che governa la città.

 

Ciò che invece condivide in fotocopia con il personaggio di Voltaire, protagonista del “conte philosophique” per antonomasia, sono l’ingenuità e l’ottimismo, refrattari a ogni evidenza. E se quello del Candide originale non era “il migliore dei mondi possibili” - secondo il celebre passo di Leibniz, bersaglio di Voltaire -, ancor meno lo è quello del rider “schiavo” dell’economia digitale, protagonista del romanzo che Guido Maria Brera ha scritto con il collettivo “I diavoli” (edito da La Nave di Teseo). Sulle tracce di Voltaire e dei suoi personaggi, Brera dà vita a un Candido 3.0 che ci conduce, attraverso le vie e le piazze di una distopica Milano post-pandemia, negli incroci più pericolosi in cui sono morti, uno dopo l’altro, molti dei sogni della Rete e dell’economia digitale.

 

Ne abbiamo parlato con l’autore e con Evgenij Morozov, uno dei più autorevoli studiosi e critici della Rete a livello mondiale.

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Quello del Candido rider-schiavo è un mondo distopico. Vengono in mente “Black mirror” e il film “Her”, nella figura di Cunegonda. Ma oltre l’immaginario letterario e cinematografico siamo già nel presente, se pensiamo al sistema dei “crediti sociali” vigente in diverse città cinesi. Eppure è come se le distopie, invece di risvegliare le coscienze, saturassero tutta la nostra immaginazione, placassero l’ansia, e in definitiva ci rendessero inermi…

MOROZOV: «Sono d’accordo, e aggiungo che quello che oggi ci manca sono le utopie. Io ho cominciato il mio lavoro criticando il tecno-utopismo, ma adesso vedo che quasi tutto il dibattito sul digitale è dominato dalle distopie. Questo può essere utile, perché ci aiuta a capire tutte le minacce, tutti i problemi connessi al digitale. Ma senza un’idea positiva di come possiamo utilizzare l’intelligenza artificiale, il cloud computing, “internet of things”, sarebbe molto difficile vincere questa battaglia contro Amazon e le grandi compagnie che ci ripetono il thatcheriano “tina” (there is no alternative) presentando questa logica della rete come l’unica possibile. Noi dovremmo invece adottare una visione diversa, pensare che c’è un mondo in cui i dati hanno un altro ruolo per aiutarci a promuovere valori come la giustizia e l’uguaglianza».

BRERA: «Io ho studiato all’università La Sapienza e ricordo la lapide che ricorda l’assassinio di Ezio Tarantelli. Su quella lapide c’è una frase che dice che le utopie dei deboli sono le paure dei forti, ed è una vita che io cerco quella frase nei miei lavori. Sono d’accordo con voi: io dico che il futuro che raccontiamo è un futuro tra cinque minuti perché in Cina è già realtà. Quello che abbiamo voluto fare con il collettivo “I diavoli” - e qui chiamo in causa Foucault di cui Morozov sa molto più di me - è stato isolare tutto questo, una forma di capitalismo che puoi chiamare in molti modi, da capitalismo della sorveglianza in avanti, perché è una sorta di magma di più elementi uno sull’altro. E abbiamo utilizzato la critica all’inevitabilità e ineluttabilità della situazione, utilizzando la filosofia di Voltaire e quella di Leibniz del “migliore dei mondi possibili”. Credo che ci sia un mondo rivoluzionario che deve venire fuori in chi legge questo libro, figlio dell’operazione che fece Voltaire e che noi abbiamo cercato molto umilmente di replicare in questa nuova era. Nel “Candido” di Voltaire c’era il terremoto di Lisbona; oggi di terremoti ne abbiamo talmente tanti che non saprei nemmeno dire quale sia il più importante».

 

A proposito di Foucault, sembra che la formula “sapere-potere” trovi il suo massimo dispiegamento nel capitalismo delle piattaforme, che qualcuno vuole onnipotenti e onniscienti.

MOROZOV: «Foucault ci aiuta a capire soprattutto il potere politico ed epistemico delle piattaforme digitali. Ma sarebbe molto difficile capire questo potere epistemico senza analizzare queste aziende come attori economici. Dobbiamo analizzare gli effetti che le aziende producono con una prospettiva che ci dica qualcosa sul neoliberismo. Il pensiero di Foucault ci aiuta, ma lui analizzava soprattutto il potere dello Stato, delle istituzioni».

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Ma alle grandi piattaforme non si attribuisce una delle caratteristiche fondamentali del potere statale, quando si parla di “sovranità digitale”?

MOROZOV: «Noi utilizziamo questo concetto per proporre un controparadigma. Loro in realtà non parlano mai di sovranità digitale. Ma sì, è vero, ha ragione lei: è impossibile capire Google senza capire il Pentagono. Non dobbiamo dimenticare questi legami».

BRERA: «Vorrei aggiungere che esaminando bene gli ultimi venti anni il periodo attuale risulta una sorta di fusione fredda tra neoliberismo e capitalismo di Stato. Io non riesco a fare differenza tra Stato e capitalismo delle piattaforme. Sono di una stessa matrice, di una stessa derivazione. Quasi come non riesco a fare differenza tra le grandi banche di investimento e uno Stato. Questa nuova forma di capitalismo è molto strana perché ce l’hanno venduta come liberismo, ma in realtà c’è molto del capitalismo di Stato. Per questo credo che oggi sia difficile capire nelle mani di chi si trovi il potere. In realtà si trova nelle mani di una entità virtuale, con una sua specifica sovranità, che chiamiamo piattaforma proprio perché poggia su molti terreni diversi».

 

Il libro si apre con una doppia dedica, a Nanni Balestrini e ai rider-schiavi. Qualche giorno fa si è chiusa un’indagine della Procura di Milano che impone l’assunzione di 60 mila rider. E all’inizio del 2020 una sentenza della Cassazione ha stabilito che ai rider vadano estese le tutele del lavoro subordinato. Si può fermare la deriva dei diritti nell’economia digitale?

MOROZOV: «Credo di sì. Ma dobbiamo analizzare e capire la retorica che le compagnie hanno diffuso in questi ultimi quindici anni dicendo che il mondo digitale aveva bisogno di regole molto particolari, speciali, che non potevano essere le regole del mondo “reale”; ponendo una differenza quasi ontologica tra il virtuale e il reale. Questo li ha aiutati molto a creare uno spazio senza regole. Ma il fatto che ci sia un algoritmo che distribuisce risorse, non cambia le dinamiche principali al cuore del loro modello, dove tutte le regole che provengono dal cosiddetto “reale” sono applicate. Dobbiamo cambiare il paradigma: questo non è un mondo a parte, è un mondo in cui noi c’eravamo e ci siamo. Il fatto che c’è un algoritmo che gestisce il lavoro non rappresenta una differenza totale rispetto a ciò che abbiamo vissuto prima. Può trattarsi invece di una accelerazione del taylorismo, per esempio. Perciò credo che possiamo parlare dei rider come una forma di iper-taylorismo. Abbiamo perso questa battaglia intellettuale e retorica all’inizio. Adesso con queste sentenze possiamo recuperare un po’».

BRERA: «Sono segnali molto importanti. E benvenuto Francesco Greco a definire “schiavi” i rider. È chiaro che nella retorica del Candido c’è quella narrativa di cui Evgenij parla: la narrativa dell’imprenditore di sé stesso».

 

Una narrativa che non ha solo effetti economico-sociali. In un libro di qualche anno fa, “La società della stanchezza”, Byung-Chul Han parlava di un modello che produce effetti depressivi e nevrotici. C’è un appesantimento anche sul piano della tenuta psicologica del singolo individuo.

MOROZOV: «L’ideologia della Silicon valley presenta questo mondo digitale come un un mondo senza esternalità. Tutto è senza frizione; ma se analizziamo bene come funziona questo mondo, da Google ad Airbnb e Amazon, noi possiamo vedere quasi subito che ci sono tutti questi costi invisibili. Che nel caso dei rider, della gig economy, sono costi anche psicologici».

BRERA: «Nessuno ha mai fatto un’analisi del costo reale. È avvenuto tutto quando abbiamo fatto lo “scambio”: noi abbiamo dato via i nostri diritti per delle merci a basso costo. Il primo scambio masochista è stato diritti verso merci. Il secondo scambio che ci hanno proposto è stato diritti verso rischi, perché alla fin fine il vero tema è che noi abbiamo delle comodità con l’economia digitale, ma vanno quantificate con tutte le esternalità. Le esternalità sono l’elefante nella stanza degli ultimi venti anni».

 

Vorrei tornare a una parola chiave: ideologia. Nell’introduzione a “L’ingenuità della Rete” (che in originale ha un titolo più chiaro: “The Net delusion”) Morozov scrive: «L’idea che Internet favorisca gli oppressi anziché gli oppressori è viziata da quello che chiamo cyberutopismo, ovvero la fiducia ingenua nel potenziale liberatorio della comunicazione online; una fiducia che si basa sul rifiuto ostinato di riconoscerne gli aspetti negativi». Quel rifiuto persiste: possiamo qualificare l’ideologia digitale come una delle più pervasive della storia? E se è così, perché lo è?

MOROZOV: «Secondo me dobbiamo distinguere tra varie ideologie. Nella parola ideologia in sé non c’è niente di male. Il problema del digitale è che abbiamo interiorizzato il fatto che c’è una sola ideologia, quella della Silicon valley, e noi dobbiamo accettarla e seguirla. E qui c’è una risposta alla sua domanda, perché possiamo vedere quasi un’equivalenza con l’ideologia del mercato. Anche lì abbiamo la stessa insistenza sul fatto che le altre ideologie sono morte e che non c’è un’alternativa. Si tratta di un altro modo per esprimere il capitalismo neoliberale: l’idea che il digitale aiuta a democratizzare il mondo. Un’idea che proviene da una lettura sbagliata dall’esperienza della guerra fredda, dove la lettura che noi abbiamo fatto era che i media hanno aiutato ad accelerare il processo di democratizzazione. Secondo me era una lettura sbagliata che però ha aiutato gli americani a presentarsi come ambasciatori delle libertà. Era molto logico aspettarsi che le piattaforme digitali potessero avere lo stesso ruolo nei primi dieci anni dalla loro comparsa. Mettere insieme la logica del capitalismo neoliberale e la logica della democratizzazione, che proveniva dal fatto che i media fossero ormai ubiqui, ha prodotto questa ideologia del digitale. È molto difficile capire perché l’egemonia digitale si è affermata senza tracciare la storia del capitalismo e della democratizzazione negli ultimi trent’anni».

BRERA: «Io la prendo dal lato estetico, più pop. Dopo la fine del secolo breve, dopo la caduta del Muro e il grande entusiasmo per la democrazia unica nel mondo globale, si innesta questo movimento molto cool, fatto di giovani che ti raccontano un mondo libero: “the world is flat”. Arriva la tecnologia e tu dici: cavolo, questo è fichissimo. È un mondo fatto di ragazzini scapigliati, dove non c’è nemmeno una fabbrica, un cattivo da vedere. Tutto questo ha aiutato molto, insieme alla grande responsabilità politica, perché nessuno ha saputo decodificare quello che stava accadendo».

 

Torniamo, per concludere, al Candido di Voltaire, nel cui titolo compare la parola “ottimismo” come bersaglio della critica del filosofo, nel senso di messa in guardia verso l’illusione di un mondo in cui vige “l’armonia perfetta delle cause e degli effetti”. Non vi sembra che l’ottimismo che ha caratterizzato l’immersione nel mondo digitale sia stato ottuso e spesso nocivo?

MOROZOV: «Io negli ultimi anni cerco di presentare il dibattito tecnologico come un dibattito che è politico ed economico, anche se non ce ne rendiamo bene conto. Tutto ciò è battaglia ideologica, ma anche politica. È per questo che assumere un atteggiamento pessimista non mi sembra la decisione giusta. È possibile coltivare lo scetticismo di Giorgio Agamben, per esempio: disconnettersi. Ma questa conclusione che non c’è altra via d’uscita è sbagliata. Io voglio un mondo più uguale e progressivo, e può essere anche digitale, ma non deve essere il mondo gestito da Amazon e da Google».

BRERA: «Sono affezionato all’idea di “bene di pubblica utilità”. Si fa presto a diventare ottimisti non ottusi, basta riappropriarsi degli algoritmi, del cloud. Basta che questo mondo che avevamo sognato “flat”, sia veramente “flat”. La politica, in Occidente, ha completamente mancato questo passaggio. Dobbiamo cominciare a pensare, volere, le conquiste tecnologiche come bene di pubblica utilità».