Capire l’universo
«Solo la scienza impara dai propri errori, per questo ci conviene fidarci di lei»
Parola di Andrea Ghez, rivoluzionaria studiosa dei buchi neri. Contro i sospetti, gli allarmi, le paure che stanno minando la lotta contro la pandemia, la Premio Nobel ammonisce: “Il metodo scientifico è il miglior modo per aprire vie al sapere”
Quattro donne nella storia sono state finora insignite del premio Nobel per la fisica. La prima è stata Marie Curie, nel 1903, seguita da Maria Goeppert Mayer e Donna Strickland. Lo scorso ottobre il premio è stato assegnato all’astronoma statunitense Andrea Ghez, per le sue ricerche sui buchi neri. L’impresa di Ghez ha sfidato alcune delle più importanti intuizioni di Einstein, frugando in luoghi dell’universo in cui le leggi della fisica sono stravolte e «l’attrazione della gravità è così intensa che nulla può sfuggirvi, nemmeno la luce». Proprio questo rende un buco nero così misterioso, ma anche pressoché inavvicinabile.
Sono serviti tutto l’ingegno e la perseveranza di Andrea Ghez per convincere la comunità scientifica a piegare gli strumenti di osservazione a usi per i quali non erano stati progettati. Alla guida del gruppo di ricerca galattica dell’Università di Los Angeles, Ghez ha diretto per 25 anni i suoi telescopi verso il centro della nostra galassia, «una regione estrema in ogni senso», tenendo d’occhio più di 3000 stelle. Nel 2019 ha così potuto pubblicare due articoli rivoluzionari, in cui descriveva un oggetto gigantesco e vorace di gas e polvere interstellare proprio al centro della nostra galassia: un buco nero. Abbiamo parlato con lei di scienza, e della fiducia che dobbiamo riservare alle scienziate e agli scienziati, specie se giovani.
Professoressa, pare dunque che la nostra galassia giri attorno a un buco nero. Cosa ne sappiamo?
«Si tratta di un buco nero supermassiccio grande quattro milioni di volte la massa del Sole. I buchi neri sono oggetti molto difficili da studiare. Non disponiamo della fisica per spiegarli completamente e questo li rende davvero interessanti. Se si desidera espandere la propria conoscenza, ci si deve muovere in direzioni in cui la nostra comprensione attuale è ancora inadeguata. E i buchi neri sono proprio questo! Ma non la chiamerei una sfida alle idee di Einstein, quanto piuttosto la consapevolezza che non sappiamo ancora come integrare le intuizioni di Einstein e la meccanica quantistica. Come scienziati si è sempre alla ricerca dell’ambito entro cui poter fare grandi progressi, ma non si tratta di audacia: i buchi neri sono chiaramente un campo importante ed eccitante, e questo li rende non solo una priorità per l’astrofisica, ma anche un ambito avvincente per il grande pubblico».
Lei ha ideato una tecnologia innovativa rivoluzionando l’osservazione dell’universo. Perché la scienza progredisca, è necessaria la determinazione di donne come lei. Ed è necessario il sostegno e la fiducia della società e delle istituzioni.
«Sono molto fortunata a lavorare in un’università di ricerca, in cui la missione fondamentale è quella di creare nuova conoscenza e quella di condividere il sapere formando studenti. Gli studenti sono sempre curiosi, spesso le loro semplici domande ci aiutano a chiarire meglio come facciamo a sapere ciò che sappiamo. L’ambiente universitario favorisce davvero la creatività. La parte didattica del mio lavoro è molto strutturata. Per la restante parte mi viene data la licenza di far ricerca in aree che ritengo interessanti. Non ci sono limiti, oltre quelli economici. Se riesco a raccogliere sufficienti finanziamenti, ho la libertà di perseguire le questioni che mi stanno più a cuore, e tutto ciò che mi viene richiesto è che produca conoscenza e dimostri progressi. È una carriera interessante, perché si deve essere ben motivati per progredire in un ambiente così libero!».
A proposito del suo rapporto con i giovani scienziati, lei qualche anno fa ha scritto un libro dal titolo “Tu puoi essere un’astronoma”. Quanto sono importanti i modelli come lei per incoraggiare le giovani donne in un ambiente ancora così dominato dagli uomini?
«Mi appassiona l’idea di rappresentare un esempio, perché penso che sia fondamentale per convincere le ragazze a intraprendere il percorso della scienza. Quando ero giovane, ho letto le biografie di Marie Curie e di un gran numero di altre donne pioniere nella scienza e in altri campi, e ho trovato queste storie fonte di ispirazione. Questa è stata una componente importante nella mia convinzione che fosse una strada possibile. Sono stata molto fortunata a crescere in una famiglia che mi sosteneva e promuoveva la mia passione, ho avuto la fortuna di frequentare scuole dal contesto incoraggiante, e mi rendo conto che oggi non tutti siano altrettanto fortunati. Penso che sia importante che ci siano buoni modelli, che siano visibili e possano aiutare. Ma in fin dei conti mi considero fondamentalmente una scienziata, ed è quello che voglio continuare a essere e fare».
Parliamo allora della scienza. Sulla Terra l’umanità affronta un’entità microscopica. Nell’universo siamo impegnati nell’osservazione di oggetti di dimensioni inimmaginabili. Con uno scopo immediato o come ricerca pura, la scienza rimane la migliore espressione dell’intelligenza umana.
«La scienza non è altro che il tentativo di capire come funzionano le cose, di spiegare l’universo fisico in cui viviamo. La funzione della scienza è in fin dei conti quella di promuovere la conoscenza, di approfondire la nostra relazione con le cose, e questo è uno sforzo essenzialmente umano: capire, essere curiosi, padroneggiare la comprensione del nostro mondo, della realtà di cui siamo parte. Ed è davvero notevole che, data la natura finita dell’esistenza umana, abbiamo avuto la capacità di comprendere qualcosa che è così tanto più grande di noi, sia in termini di spazio che di tempo. Circa cento anni fa pensavamo alla nostra galassia come all’intero universo esistente, mentre oggi abbiamo una comprensione molto maggiore degli aspetti finora incredibili dell’universo che ci ospita».
Tuttavia c’è un’idea molto strana della scienza. Alcuni sono sospettosi, alcuni pensano che la scienza sia uno spreco di risorse. Sembra ci sia quasi paura della scienza.
«È interessante pensare che ci siano persone spaventate dalla scienza e che rifiutano di accettarne i risultati. Io vivo in una comunità in cui la scienza è ovviamente accolta, ma penso che in generale la scienza sia di fatto accettata: viviamo in una società guidata dalla tecnologia, e tutto questo è possibile grazie alla ricerca di base, per la quale, inizialmente, le applicazioni ultime sono pressoché ignote. La costruzione di una comprensione profonda della realtà e la ricerca di soluzioni avanzate – per esempio, per sviluppare un vaccino così rapidamente – si fondano su anni di scienza di base capace di aprire nuove vie per il sapere».
Quindi non si tratta di paura, ma di capire come funziona la scienza.
«Penso che tutti noi nasciamo come “scienziati” estremamente curiosi del mondo. Il modo in cui maturiamo come esseri umani è del tutto simile al processo scientifico. I bambini piccoli fanno esperimenti tutto il tempo: fanno cadere il cucchiaio e si chiedono “chi me lo raccoglierà?”. Questo è il loro metodo di apprendimento del mondo. Da adolescenti sperimentiamo fino a che punto possiamo spingere i nostri genitori – e lo dico come madre di teenager. Siamo tutti scienziati naturali: vogliamo capire, siamo curiosi per natura. E questo è un vero e proprio strumento di sopravvivenza, perché se non si è curiosi, non si può capire il mondo che ci circonda. Ripeto, la scienza è comprendere come accadono le cose, dalla vita quotidiana dei bambini ai buchi neri supermassicci».
Però ora che si tratta di vaccini, ci sono molte persone diffidenti. Siamo naturalmente curiosi, ma anche molto sospettosi.
«È naturale e giusto essere critici riguardo alle nuove conoscenze che impariamo: è parte del progresso del nostro sapere comune! Tuttavia dobbiamo anche aver fiducia nel processo scientifico. Non possiamo saperne di ogni cosa in ogni campo, e per questo dobbiamo affidarci a degli esperti. Il processo scientifico è molto rigoroso, si basa su dati e su anni di ricerca e convalida, e sul continuo scambio tra studiosi. Questo metodo ci offre la migliore possibilità di comprendere e risolvere i problemi, come per esempio per produrre vaccini sicuri per superare una pandemia».
Vorrei tornare su un punto che abbiamo già sfiorato. Lei è la quarta donna a vincere il premio Nobel per la fisica. La nostra società non è così aperta al contributo delle donne. Pensa che questo cambierà mai?
«Credo di sì, di fatto abbiamo già compiuto importanti passi avanti. Lo scenario entro cui fare scienza è già molto diverso rispetto a una generazione fa. Personalmente non ho mai messo in dubbio la mia capacità di essere una scienziata. L’ho sempre visto come qualcosa in cui ero brava, qualcosa che mi piaceva, quindi perché non avrei dovuto perseguire questo progetto? Anche crescendo mi sono sentita totalmente legittimata a perseguire la scienza. Solo più tardi ho capito che la faccenda era un po’ più complicata, ma, di nuovo, mi sento molto fortunata a lavorare in un’istituzione che mi ha completamente sostenuta come professoressa, come scienziata, e che mi ha appoggiata nel perseguire le domande che ritenevo interessanti. Penso che sempre più istituzioni e sempre più Paesi stiano abbracciando l’idea che la scienza ha molte forme».
Non mancano certo le donne nella scienza, ma raramente ricevono il giusto riconoscimento. E, quando si affermano, vengono osservate come qualcosa di esotico, una notizia di colore. Quando il suo premio è stato ufficializzato, i titoli giornalistici hanno parlato di “una donna”, dimenticando di ricordare le sue ricerche e, perfino, omettendo il suo nome.
«Non mi vedo come una scienziata-donna. Mi vedo come una scienziata. Sono felice di essere parte di questa lunga storia e che le donne possano lavorare in questo campo. Sono entusiasta della scienza a cui stiamo lavorando. È questo che mi fa andare avanti, questo è ciò che mi eccita quando mi alzo la mattina. E spero che questo mio entusiasmo, il dialogo su come funziona la scienza e la possibilità di vedere persone che ci assomigliano in queste posizioni possano aiutare a produrre il cambiamento».