«Nei miei disegni ciò che prevale è la composizione dell’immagine e la citazione dei movimenti artistici». Colloquio col disegnatore de L’Espresso, capace di descrivere il passato guardando al futuro

Pierluigi Longo è un uomo elegantissimo e questa sua qualità si evince immediatamente dalle immagini che crea. Pochi illustratori si sovrappongono al proprio lavoro in maniera tanto simbiotica: i personaggi, le città che disegna e le tonalità cromatiche che utilizza, rispecchiano in pieno la sua natura.

Le sue immagini ricordano tempi passati ma Longo è capace di illustrare - e bene - anche il futuro, senza rinunciare a una nota retrò che lo contraddistingue.

Non ricordo la prima volta che abbiamo lavorato insieme e l’illustrazione che uscì fuori dal nostro incontro professionale, ma fu sicuramente molti anni fa quando lavoravo per Repubblica insieme all’Art director Angelo Rinaldi.

 

Pierluigi, tu ricordi il primo contatto con Repubblica e col Gruppo Editoriale Gedi?

Sì, ricordo la mail di Rinaldi che mi proponeva una collaborazione. Ne ero molto contento, ovviamente, ma non so più se sono stato io a propormi per primo, oppure se Angelo mi ha contattato dopo aver visto qualche mio lavoro. Ricordo comunque che si trattava della copertina di uno Speciale Viaggi.

 

Nel 2015 per Repubblica hai eseguito tutte le illustrazioni di una serie di articoli di Gabriele Romagnoli che - da grande viaggiatore qual è - ogni settimana raccontava la sua visione di una città. Ancora oggi, a distanza di anni, mi meraviglio della qualità altissima che hai mantenuto per tutte e cinquanta le illustrazioni realizzate. Decine di città diverse, da metropoli conosciutissime da tutti a cittadine di frontiera, restituite visivamente ai lettori ogni volta in modo originale e fedele al testo.

Ti ringrazio dei complimenti, è stato un lavoro molto interessante. Gli articoli di Romagnoli di quella serie, erano sempre intensi, a volte anche drammatici, a cominciare dal primo: una corsa in taxi in una Beirut in fiamme. Ho cercato di restituire la forza presente nei testi con immagini d’impatto, dai tagli netti, alternando tinte piatte a texture e motivi decorativi che richiamassero i luoghi lontani di cui si parlava. Per farlo, a volte ho usato il collage.

La penultima storia riguardava i miei nonni e la città di Tripoli: è stato particolarmente emozionante rileggerla nelle parole di Romagnoli ma sicuramente anche difficile illustrarla, dato il livello di coinvolgimento.

L’ultimo articolo era incentrato sul suo rapporto con una città alla quale è particolarmente legato, New York e così come chiusura della serie ho ritratto Romagnoli segmentato e riflesso nei grattacieli di Manhattan.

Questo lavoro è stato l’occasione per conoscere Gabriele di persona, poi ci siamo rivisti anche in seguito con piacere. Ha sempre delle cose molto appassionanti da raccontare.

 

Come è accaduto con Ivan Canu, anche con te nel momento in cui sono passato all’Espresso ho chiesto una mano. Volevo dare al settimanale una forte impronta visiva e avevo necessità di illustratori di qualità e riconoscibili. Sei salito a bordo da subito. Qual è il tuo rapporto con L’Espresso?

È un rapporto ideale, direi. Gli argomenti da illustrare sono sempre stimolanti e la sensazione è che mi vengano affidati proprio quelli più adatti al mio stile. L’illustratore in genere tende un po’ ad innamorarsi delle proprie soluzioni visive e tu sei un art director che con il giusto tatto è in grado di far notare se l’immagine non funziona, oppure se va un po’ modificata. Non ricordo una volta nella quale una richiesta di modifiche non abbia poi migliorato l’immagine finale.

Inoltre, da parte di tutto l’ufficio grafico (e immagino anche della redazione) c’è un grande  rispetto e passione per il lavoro dell’illustratore.

 

Facciamo un passo indietro. Come hai iniziato a disegnare e quando hai capito che sarebbe diventata la tua professione?

Non mi ritengo propriamente un “disegnatore” e credo che questo si veda anche nelle illustrazioni che faccio. Mi definirei più un “assemblatore”: dopo quasi trent’anni di pratica i miei disegni sono migliorati, certo, però il segno non è sicuramente il cardine della mia indagine visiva. Prevalgono maggiormente sia la composizione dell’immagine che la citazione a movimenti artistici del passato.

Io sono sempre stato un secchione e penso che anche questo aspetto si percepisca nelle mie illustrazioni, mi piace condividere con gli altri tutto quanto ho visto e letto fin qui.

Comunque si, da piccolo disegnavo e facevo collage. Ho frequentato il liceo artistico, poi a metà degli anni Ottanta mi si sono poste davanti varie possibilità: tra la grafica, l’illustrazione e l’art direction ho pensato che la strada dell’illustratore, con il suo particolare ibrido autore/artigiano con un piede dentro e uno fuori i meccanismi della persuasione visiva, mi fosse particolarmente congeniale.

Nello specifico, ho capito che questa potesse essere una professione nel Novembre del ’93: lo ricordo bene perchè ho iniziato ad avere più richieste di lavoro di quante riuscissi a soddisfarne.

 

A differenza di altri tuoi colleghi non hai mai realizzato un libro. Quella dell’autore è una dimensione che non ti interessa?

È capitato che mi proponessero di fare un libro, poi per un motivo o per l’altro questa possibilità non si è realizzata. Devo confessare che faccio fatica a mantenere uno stile coerente in una serie consecutiva di illustrazioni, forse perché considero sempre l’immagine come un evento singolo.

Proprio in questi giorni sto provando a fare una breve striscia da pubblicare sul mio profilo Instagram.

 

Lavori molto anche con magazine internazionali. C’è differenza tra la committenza italiana e quella straniera?

Non ci trovo grandi differenze. Più che altro, quando si trovano a dover scegliere tra le bozze delle illustrazioni che invio, all’estero gli art director sono forse più attenti ai concetti espressi che non alla composizione dell’immagine. Probabile che lo noti perché invece quelli italiani mi conoscono di più e sanno che preferisco dare priorità alla forma più che al contenuto, di conseguenza selezionano i lavori più adatti a me.

Percepisco anche un controllo maggiore sull’immagine da parte degli art all’estero, aspetto che può essere di volta in volta positivo o negativo, ovviamente.